SOUL (2020), di Pete Docter (co-regia Kemp Powers)
Ricorda il mondo delle idee di Platone, quel giardino delle giovani anime non ancora nate che sotto la guida di mentori più e meno illustri formano la propria personalità innata in attesa di scoprire quale sarà la «scintilla» che le preparerà definitivamente al mondo. Eppure in Soul, nuova incursione animata di Pete Docter nell’esistenzialismo formato Pixar cinque anni dopo aver firmato la regia di Inside Out, lungo il percorso di ricerca di un senso nella vita le idee possono essere insufficienti senza passare per la più aristotelica esperienza quotidiana, per la passione e per il trasporto dell’arte, per il sapore inaspettato e commovente di una fetta di pizza, per la semplicità poetica di una foglia in volo trasportata dal vento. Per il rendersi conto, quasi all’improvviso, che è emerso un inaspettato affetto, attraverso il quale l’eterno bambino è finalmente diventato grande e l’eterna anima è finalmente pronta per diventare bambino. Sarebbe riduttivo, quindi, definire Soul “solo” un film sulla morte. Certo, lo è, evidentemente, come sempre più spesso in Pixar, compresi il delicatissimo Coco e l’ormai penultimo ultimo Onward di cui Docter era produttore. Ma Soul, “bollinato” da Cannes dopo la non-edizione 2020 e presentato in apertura della 15ma Festa del Cinema di Roma prima di non andare in sala (semplicemente sconcertante la scelta di Disney di sfruttare la chiusura causa Covid di buona parte delle sale americane per distribuire in tutto il mondo il film solo in streaming sul proprio servizio, non solo auto-mancando di rispetto allo splendore immaginifico e tecnico della sua stessa opera, ma mettendo sostanzialmente in ginocchio tutte quelle sale europee e asiatiche che sull’incasso del nuovo parto creativo di Pete Docter sarebbero state invece pronte a puntare molto della loro sopravvivenza in questo momento così difficile per la filiera), è soprattutto un film sull’ispirazione come necessario senso del vivere, sulla ricerca di un fuoco interiore e sulla necessità di esprimerlo e trasmetterlo, sul bisogno di meritarsi una seconda possibilità attraverso la quale smettere di sentirsi (e quindi di essere) mediocri, irrealizzati, falliti, aridi, perdenti. È un film fatto di arte che si interroga sull’arte, edificato sulle aspirazioni e sulle frustrazioni, sulle sconfitte e sulle occasioni per svoltare, sugli scambi e sulle riconsiderazioni. Un film di intimità e di incontri, di (s)cambi radicali e di destini ancora tutti da scrivere, di sentimenti crescenti e di costante ricerca della luce. Di voli verso la Terra e di istanti che valgono un’esistenza, di serate concertistiche tanto leggendarie da essere forse irripetibili e di rapporti umani che cambiano all’improvviso, di improvvisazioni musicali che diventano un magico e fluttuante amalgama e di abiti paterni da onorare, di scintille passate e presenti e di flashback che tornano strazianti per ridiscutere tutto il proprio vissuto.
Si tratta di trovare il giusto punto di innesco, la passione bruciante, la consapevolezza di ciò che si è e di ciò realmente piace e dà gioia, la capacità di continuare sempre a crederci e a credere in se stessi senza rischiare di trasformarlo in invasato assillo e frustrazione. Anzi, la ricerca troppo spasmodica di un successo troppo fine a se stesso – artistico nel caso del pianista jazz protagonista che identifica l’unica possibile ragione di vivere nella musica, ma a partire dall’emblematico agente di borsa che quando “rinsavisce” dalla trance lavorativa e torna a vivere scaraventerà a terra i computer dell’ufficio appare in realtà evidente un’inaspettata critica a tutto il sistema – è in qualche modo l’opposto del senso della vita, è un sommarsi di errori di valutazione e di depressioni, è un lasciarsi prendere la mano e scartare dalla via maestra dell’umanità. Proprio come nei costanti e necessari compromessi fra le emozioni di Inside Out, alle anime né vive né morte di Soul serve trovare un punto di equilibrio per non rischiare di perdersi, di ritrovarsi dissociati dalla vita, di essere fagocitati e resi mostruosi dalle proprie stesse ossessioni. Serve saper sfruttare le ispirazioni e le occasioni che si presentano per la soddisfazione personale, serve saper spingere la consapevolezza del proprio talento oltre le difficoltà e le porte in faccia, ma serve anche saper abbandonare l’individualismo, serve anche risolvere i conflitti generazionali nel ricevere e soprattutto nel restituire, serve anche rendersi conto che il vero successo, e quindi la vera e più sincera arte, forse nient’altro è che la vita e la sua condivisione dei piccoli momenti. Solo così, in una reciproca solidarietà che viaggia nel perfetto solco di Frank Capra, le anime saranno realmente pronte varcare il confine e ad abbandonare il limbo, ad affrontare il loro viaggio verso la Terra o la loro definitiva (?) ascensione verso il cielo. Del resto, il cuore di Soul sta proprio nell’incontro di due anime, una non ancora pronta a morire e l’altra non ancora pronta per nascere. Sarà una caduta in un tombino proprio sul ciglio della svolta a farle incontrare, sarà la sospensione del coma, sarà il caso che fa scambiare l’anima del pianista protagonista per quella di un noto psicologo infantile, sarà la ferrea volontà di imbrigliare le carte di un destino ingiusto per potersi giocare quell’occasione aspettata da tutta la vita. Da una parte, plasmato sulle fattezze e sulla voce di Jamie Foxx, il musicista Joe Gardner, talentuoso quanto sfortunato nei suoi 40 anni, nella sua vita mediocre, nelle sue incomprensioni con la madre, nel suo insoddisfacente lavoro come ben poco capito insegnante in una scuola media, nella sua (quasi) morte proprio poche ore prima del debutto con il principale quartetto jazz della città. Dall’altra l’anima numero 22 che gli viene affidata, la più dispettosa, la più isterica, quella che nemmeno anime-mentori del calibro di Copernico, Madre Teresa, Mohammed Alì, Jung e Lincoln sono mai riusciti a convincere a nascere, e a cui qualche creativo Pixar tifoso di NBA si è persino divertito a dare le colpe per la lunga serie di disastrose stagioni dei NY Knicks. Eppure esiste una possibilità per il ritorno, esiste uno strato più sottile fra un mondo e l’altro, esiste una porta dalla quale lanciarsi. Solo che nel corpo di Joe finisce l’anima che non sa suonare di 22, mentre Joe si incarna in un gatto. Il resto è un doppio romanzo di formazione lungo una mezza giornata nei panni “sbagliati”, fatto di gag e di radicali mutamenti, di 22 che scopre (di apprezzare) il mondo e nel frattempo riesce a sistemare buona parte dell’irrisolto nella vita di Joe, di Joe che riesce ad avere la benedizione di una madre e il suo momento di gloria con un concerto leggendario, ma nel frattempo si renderà conto di dover tornare indietro a salvare quell’anima non più candida dal buco nero dei rimpianti.
È intreccio da perfetto cinema classico, quello di Soul, mirabilmente affrescato di scintille e di frammenti, di ispirazioni e di istanti, di riflessioni esistenziali e di passioni, di immaginari e di differenti stili animati, di non pochi momenti toccanti e di una ben precisa e non certo comune profondità filosofica. Per quanto non manchi, va detto, di qualche pennellata di buonismo un po’ cerchiobottista, inevitabile nella correttezza politica a ogni costo dei prodotti della casa del Topo. Così come non manca qualche altrettanto inevitabile didascalismo nello “spiegare” anche ai bambini come funziona l’ante-mondo dell’Io-seminario, non mancano ripetuti ritorni alla scintilla come considerazione «rudimentale» del senso della vita di chi ancora non ha capito che l’ispirazione può essere in ogni oggetto e in ogni momento, né mancano un forte senso di programmaticità e un’aderenza sin troppo citazionista (la Scala al paradiso già di Powell e Pressburger, lo sguardo e la “caduta” verso la Terra tanto di Apollo13 quanto di Gravity, il limbo dal quale raccontarsi già di Lubitsch ne Il cielo può attendere, e ovviamente quel finale che pur senza il Natale di mezzo guarda così apertamente a La vita è meravigliosa) a linguaggi e stilemi cinematografici ben noti e collaudati, che forse in qualche modo cozzano con la libertà, l’estraniazione e, appunto, l’anima del jazz, con il fluttuare nella sospensione musicale, con il volteggiare sognante fra le note improvvisate come se fossero macchie di colore, con l’assolo come un canto in cui non servono parole per trasmettere storie ed emozioni. Ma è nella sua potenza visiva che Soul si distacca dal classicismo della “storia” e diventa altro, esce dagli schemi fino a ritrovare buona parte di quella stessa anima del jazz. Non tanto nel pur straordinario naturalismo ormai pressoché perfetto delle animazioni 3D in cui è ricostruita la New York del mondo reale, quello della vita, quanto con un microcosmo metafisico e spirituale fatto invece di immaginari astratti, di scalinate verso l’eterno e di versioni tridimensionali di Mr. Linea (evidente la citazione e rielaborazione del nostrano Osvaldo Cavandoli), di passaggi segreti fra i mondi e di luci in cui perdersi, di linee su nero e cubismi fra i quali far viaggiare la morbidezza incorporea delle anime. Un microcosmo ultraterreno in cui persino la colonna sonora elettronica di Trent Reznor e Atticus Ross si fa ipnotica e sfuggente, e in cui i tratti essenziali immersi nei cromatismi freddi dei fondali, qui tondeggianti e qui nerboruti, sono protagonisti di una bolla a metà fra lo spazio fisico e quello spirituale in cui il depositario della mistica è un uomo-sandwich, giocoliere, ballerino e comandante di vascello o forse chiunque si perda nell’ispirazione della propria arte, in cui ogni anima di futuro nascituro ha già più caratteristiche formate del proprio carattere ma ha bisogno della scintilla per completare il badge di accesso alla vita, e in cui le anime perdute si possono sfaldare ma anche ritrovarsi. Certo, serve qualcuno disposto a entrare nel loro dolore, serve qualcuno disposto a essere fagocitato dalla loro depressione, serve qualcuno disposto persino a sacrificarsi e morire per dare la vita ad altri, e che proprio per questo troverà la salvezza di una seconda vita. Serve qualcuno disposto a cambiare vocazione e, proprio come chi dal sogno di fare il veterinario si è scoperto (ottimo) barbiere, scoprirsi di nuovo figlio e poi in qualche modo genitore. La scintilla è scoccata, la vita è pronta per essere vissuta. Non resta che saltare insieme e rimanere mano nella mano finché sarà possibile, dal limbo alla Terra, dal sogno alla vita, dall’anima al corpo. Come dita che saltano sulla tastiera di un pianoforte, forse.
Marco Romagna