SOMETHING DIFFERENT (1963), di Vĕra Chytilová
Prima di tutto in Something different, folgorante opera prima della “first lady” della Nova Vlná fra avanguardia cinematografica e istanze sociopolitiche di parità dei sessi Vĕra Chytilová, c’è la Cecoslovacchia dei primi anni Sessanta. Una Cecoslovacchia patriarcale nella quale la condizione femminile era ancora subalterna – per non dire succube – all’uomo, una Cecoslovacchia nella quale la destalinizzazione drammaticamente tardava ad arrivare, una Cecoslovacchia rigorosamente piegata all’ortodossia del presidente Novontný, una Cecoslovacchia di frustrazione, di amarezza, ma anche e soprattutto una Cecoslovacchia/pentola a pressione, nella quale il ribollire sociale non potrà che sfociare, dal ’68, nella Primavera di Praga e nelle fiamme che avvolgeranno il corpo di Jan Palach per protesta contro l’invasione sovietica. Quello che sarebbe avvenuto cinque anni dopo, ovviamente, i registi della Nova Vlná non lo potevano sapere, ma nei loro film, dai primi di Miloš Forman a quelli di Jiří Menzel, passando appunto per il cinema di Vĕra Chytilová omaggiata dal DocLisboa 2017 con una retrospettiva completa magnificamente curata da Boris Nelepo con sfavillanti copie in 35mm del Národný Filmový Archìv di Praga, pare quasi di poter sentire gli scricchiolii del Patto di Varsavia, pare quasi di poter percepire quale fosse la voglia di libertà ed emancipazione che sfrecciava inarrestabile fra un popolo che non ne poteva più di subire soprusi, pare quasi di poter vivere quegli stessi anni e quella stessa società, raccontati nella quotidianità e combattuti con l’ironia amara di chi ride in faccia a una macchina statale da rifondare.
Something different, di quotidianità, ne racconta due, intrecciandole con uno stile che fa dei frammenti narrativi tasselli di un mosaico umano e politico. Da una parte, il puro documentario sui duri allenamenti della ginnasta Eva Bosáková alla ricerca dell’ultima medaglia d’Oro prima del ritiro, con le sue debolezze mai nascoste, e anzi cavalcate, per raggiungere la perfezione. Dall’altra, la pura e rigorosa finzione della quotidianità di Vera, casalinga insoddisfatta con figlio pestifero e marito disinteressato che alla famiglia preferisce leggere il giornale e guardare partite di calcio, impegnata al contrario nel vano tentativo di dissimulare le umane debolezze in una relazione adulterina che nient’altro farà che lasciarla ancora più sola, triste, sconfitta, abbandonata, infelice, continuamente umiliata. Quelle che si intrecciano in Something different sono due storie di frustrazione femminile in una società maschilista e retrograda, che Vĕra Chytilová porta sullo schermo lavorando per analogie e per contrasti, per ellissi temporali e per dilatazioni dell’audio, per raccordi di montaggio stranianti e per una costante ricerca di equilibrio – quello della ginnasta che deve saper volare e atterrare con grazia, quello della donna che cerca invano un minimo di soddisfazione dalla propria triste quotidianità, ma anche quello della lingua filmica, spartita fra il documentario e la messinscena, fra la presenza fisica della macchina da presa e la sua sparizione, fra audaci inquadrature capovolte che si raddrizzeranno seguendo i movimenti della donna in palestra e uno sguardo che quasi spia le sue protagoniste attraverso gli stipiti delle porte, incorniciandole in spiragli di vita. È un film di specchi, di inquadrature zenitali sugli esercizi alla sbarra e sulla danza, di passaggi a schiaffo da una realtà all’altra. È un film di silenzi, di litigi, di incomprensioni, di fuori campo, in cui il non-detto conta più della parola, in cui l’allusione parla ancor più dell’immagine.
Gli aggraziati salti del corpo di Eva Bosáková, con tanto di fermi immagine a sottolinearne la paura e al contempo la ferrea volontà di volare, sono gli stessi che Something different compie fra una realtà e l’altra, fra una donna e l’altra, fra un uomo dominante e l’altro. C’è un marito incapace d’amore, c’è un amante incapace di accettare il suo ruolo, c’è un figlio/terremoto fra i giri in bicicletta per casa e le piante innaffiate dall’alto allagando il tinello, e poi c’è un allenatore duro, quasi crudele, per il quale conta solo la perfezione del gesto tecnico e non certo l’umanità o la fragilità della ginnasta che sta preparando per le gare. Ci sono le cadute dalle quali rialzarsi, ci sono le avventure che si dimostreranno effimere, c’è la costante ricerca di una quiete impossibile, ci sono le difficoltà quotidiane che, nel mondo della ginnastica artistica così come nelle case di Praga, non possono che scorrere parallele, opposte eppure identiche. Quelle di Eva e di Vera sono due realtà asfissianti di maschilismo e frustrazione, da cui entrambe le donne cercano motivazioni per andare avanti, per liberarsi del giogo, per vincere, che sia una medaglia olimpica o che sia l’autodeterminazione quotidiana, che sia la parità dei sessi o che sia l’individualità della donna in quanto tale, e non come pedina di una famiglia o di uno sport che, con lei o senza di lei, andrà avanti lo stesso.
In un ritmo di montaggio follemente serrato, fatto di audaci inquadrature e di velocizzazione dei tempi morti, fatto di movimenti a schiaffo, zoom e repentini cambi di personaggio, fatto di sofferenza e della centralità di quegli stessi corpi femminili che, sin dai primi cortometraggi realizzati al FAMU, accompagneranno come una cifra stilistica tutta la carriera di Vĕra Chytilová, Something different delineava già nel ’63 un paradigma in grado di portare sullo schermo una porzione di “vero”, fatto non tanto di istanze femministe, ma di ricerca di uguaglianza e di equilibrio in un mondo ostile, nel quale la ciclicità nient’altro è che un’eterna sconfitta. La realtà e la finzione si muovono a braccetto per delineare una società in agonia, mentre sullo schermo si alternano stili differenti, quasi opposti, dal cine-verité alla messa in scena più rigorosa, dai “marchi” d’artista alla pura osservazione, dall’aperta critica sociale al puro umanesimo verso chi si trova(va) in un vicolo cieco chiamato Cecoslovacchia. Un Paese schiacciato eppure vivo e ribollente, nel quale la Nouvelle Vague cinematografica nient’altro è stata che un miracolo, unico e forse irripetibile, di sincerità e di filmabilità del quotidiano, di ironia sorniona e di lotta sul campo per immagini, di aperte metafore e di geniali raccordi di montaggio. Something different, forse, non è ancora il suo apice, ma già ne iniziava a delineare le caratteristiche più importanti, ponendosi come una pietra miliare fondante e fondamentale. Come un film (già) straordinario, che si nutre del suo tempo eppure si pone orgogliosamente fuori dal tempo, perfetto esempio di un cinema sublime e ormai forse impossibile. Un cinema verso il quale non possiamo che guardare con nostalgia e rimpianto.
Marco Romagna