6 Novembre 2016 -

SOLARIS (1972)
di Andrej Tarkovskij

Mi ritrovo, dopo più di un anno da quando ho scritto di Nostalghia post-proiezione in 35mm al Cinema Massimo di Torino, a dover scrivere di un film di Tarkovskij, ed è un problema. È un problema, perché Tarkovskij è il regista che amo di più da quando per sbaglio ho visto Stalker in pre-adolescenza, e ne sono rimasto profondamente affascinato pur non avendone capito nulla. Il sospetto, dopo aver recuperato il resto della sua filmografia, rimane che forse è impossibile capire a tutto tondo la filmografia di Tarkovskij. Anche solo limitandosi ai suoi lungometraggi narrativi, possiamo trovare in ogni singolo film un’opera essenziale per la comprensione della storia del cinema tutto, dal film di guerra al film storico, dal film di fantascienza al film mistico. Al Trieste Science+Fiction Film Festival abbiamo assistito, pochi giorni fa, al restauro in DCP fatto dalla Mosfilm di Solaris, il terzo film dell’autore sovietico e uno dei capisaldi della fantascienza cinematografica a livello mondiale. Oltre a essere uno dei migliori restauri in digitale che si ricordino, è stata anche un’occasione meravigliosa per riscoprire un inevitabile capolavoro – e considerando che il cinema di Tarkovskij è tra i più mutevoli di tutti, e ogni volta rivedere un suo film qualsiasi in un momento qualsiasi può risvegliare l’importanza di quel film in quel momento, e aiutare la crescita o accompagnarla, non esito a dire che probabilmente ogni suo film è classificabile come un tassello importantissimo nel puzzle del cinema, sia a livello personale sia a livello totale. Solaris l’avevo già visto al cinema, ed era in 35mm a Torino nella stessa occasione in cui avevo visto Nostalghia, ma avevo da poco preso la febbre ed è stata una proiezione di cui ricordo poco o nulla, e che ho sottovalutato parecchio nonostante fosse la seconda volta che lo vedevo. Forse per questo motivo, per tutto questo tempo ho detto che Solaris è, di tutto Tarkovskij, il film che mi piace di meno. Rivedendolo in questa occasione triestina, mi sono reso conto che è veramente stupido parlare di un “Tarkovskij minore” perché il suo cinema fluviale non accetta compromessi, ma semplicemente integra in sé la meraviglia che, come tale, spaventa, colpisce, affascina, in maniera più o meno razionale. Scrivere di Tarkovskij o scrivere di Solaris diventa per me un’esperienza intima, uno scrivere (di) sé stessi e delle proprie proiezioni sulle immagini dell’altro, del più grande di tutti. Colui che con L’infanzia di Ivan ha applicato lo sguardo di uno pseudo-Antoine Doinel alla guerra nell’angoscia sovietica; colui che con Andrej Rublëv ha spiegato al meglio il rapporto tra l’arte, la Storia e la morte aprendosi verso il colore, la poesia e la sovrapposizione; colui che con Lo specchio ha traslato in maniera definitiva il linguaggio poetico della propria anima sostituendolo completamente al linguaggio narrativo del cinema; colui che con Stalker ha composto forse il film di fantascienza più filosofico di tutti i tempi, contribuendo alla mia passione per il cinema, al suo nascere, al suo fiorire; colui che con Nostalghia ha fatto piombare nel suo magnetico pessimismo esistenzialista il tempo, la memoria, la legge Basaglia, la nostalgia; colui che con Sacrificio ha riscritto una crisi mistica bergmaniana con un ritmo e un’estetica apocalittica legata a Nietzsche; e infine, colui che con Solaris ha creato un film-evento umanissimo sulla necessità dell’umanità nello sguardo, nell’anima, nella mente.

Cominciamo con un po’ di Storia e un po’ di struttura. Solaris è tratto dal romanzo omonimo del 1961 di Stanisław Lem, romanzista polacco diviso tra fantascienza, filosofia e satira, da cui era già stato tratto un (fedele) film televisivo in bianco e nero nel 1968, con alla regia Boris Nirenburg. Il romanzo è stato soggetto di molteplici interpretazioni, dalla filosofia alla psicologia freudiana fino all’allegoria sociopolitica, e delle tre rese cinematografiche (la terza è composta da un film diretto da Soderbergh con protagonista George Clooney, uscito nel 2002) Lem non ne ha approvato una, dicendo che nessuno dei film sembrava raccontare il fascino magnetico e misterioso dell’oceano Solaris nella maniera in cui lui aveva cercato di renderlo. Il problema di base è che Lem pare sia legato all’idea (non solo obsoleta ma anche dannosa per il cinema) che un adattamento filmico di un romanzo dovrebbe corrispondere a una copia in immagini delle parole scritte: così, il film in genere perde scopo d’esistenza e il romanzo perde fascino in quanto manifestato attraverso la regia e la sceneggiatura. Ma prima, la trama di Solaris: il pianeta Solaris è un organismo vivente composto praticamente soltanto da un gigantesco oceano, e degli astronauti terrestri hanno portato su di esso una stazione, la Stazione Solaris, per studiare i fenomeni che si verificano sul pianeta, seguendo una nuova disciplina che viene chiamata Solaristica. Lo psicologo Kris Kelvin viene mandato alla Stazione Solaris per studiare la mente e gli atteggiamenti dei tre uomini rimasti sulla stazione, ma finisce per essere catturato dai fenomeni assurdi del pianeta, che riescono a farlo interagire con una donna con cui aveva avuto una relazione decenni prima, suicidatasi per amore. Il film di Tarkovskij, nell’addentrarsi nei desideri più intimi dell’uomo a cui Solaris dà corpo in neutrini anziché atomi, è senza dubbio fedele al soggetto di base, anche se è più concentrato sull’umanità del protagonista e dei personaggi (e quindi su di una riflessione psicologica, intima, poetica e personale su di essi), ed è abbastanza comodamente scindibile in sezioni: la prima è dedicata alla vita casalinga e alla routine terrestre di Kelvin dieci anni dopo la morte dell’amata Hari, nella casa d’infanzia in mezzo alla campagna, col padre, l’ultimo giorno prima della partenza; la seconda è dedicata allo spaesamento all’interno della stazione Solaris e ai contatti con gli scienziati che Kelvin vi trova; mentre la terza e più corposa sezione è quella dedicata al rapporto tra Kelvin e la manifestazione di Hari su Solaris. Bisogna comunque ricordare le varie sequenze in filtri seppia o blu o in bianco e nero che a volte appaiono a interrompere la narrazione, come creando delle parentesi dalla realtà narrativa, aprendo porte e finestre su mondi altri: onirismi, ricordi, veri e propri viaggi nel reale. Di queste parentesi, la più enigmatica, rivoluzionaria e memorabile è quella del viaggio dell’astronauta Berton in macchina attraverso il distretto residenziale di Akasaka a Minato, Tokyo: riprese che si sarebbero dovute girare durante l’Expo ’70 per inquadrare spazi minimamente simili ad architetture futuristiche, ma alla fine le riprese sono state fatte nel 1971, e quelle che si vedono in questa scena (la scena conclusiva della prima sequenza) sono le normali architetture di Akasaka, e rappresentano dunque un mondo poco moderno ma forse triste, paradossalmente un “futuro presentibile” invece che il suo opposto, che è il prototipo concettuale dell’intero genere fantascientifico. Tarkovskij ha più volte detto di non apprezzare Solaris come proprio prodotto cinematografico, anche perché, a differenza di Stalker, secondo lui non è un film che riesce ad andare oltre i limiti del genere fantascientifico, non è un film che riesce a trascendere. E probabilmente sbaglia, ma bisogna empatizzare con questa sua idea se si prende come esempio di cos’è Solaris la versione tagliatissima imposta da De Laurentiis, in cui è completamente elisa la prima sezione del film.

Passando a un approfondimento più lontano dai semplici fatti e più vicino ad un commento critico, bisogna ricordare come è stato venduto all’epoca Solaris, ovvero con la tremenda definizione “la risposta sovietica a 2001: Odissea nello spazio”. Partendo dal presupposto che sono due film di importanza capitale in maniere completamente diverse e la decisione su quale sia il “migliore” è probabilmente un atto folle, o tutt’al più un gioco che ognuno può figurare basandosi solo e soltanto sulla sensibilità personale, i due film sono assolutamente diversi ed è giusto prendere in considerazione le analogie e le differenze. Partiamo dalle analogie: sono entrambi film di fantascienza, sono entrambi film d’autore, sono entrambi film atti a varie possibili letture ed interpretazioni, in entrambi i film c’è una stazione spaziale circolare. Fine. Tutto qui. Passando alle differenze, possiamo notare subito una profonda divergenza filosofica nel sovrapporsi tra i due piani dell’uomo e del cosmo: in 2001 l’uomo-macchina è vittima del cosmo e di sé stesso, ma grazie alla forza superiore (il monolito: Dio, l’inesperibile puro) passa attraverso una sorta di ideale rinascita corporale ed estetica; in Solaris l’uomo innanzitutto è dotato di una psicologia ben più definita ed è con quella che destruttura, distrugge, rovina il proprio destino, grazie anche alla memoria, alla nostalgia, alla Storia, ma non rinasce, e anzi indugia nel proprio stesso sconforto interiore: l’uomo torna all’interno di se stesso e non riesce ad uscire, a sovrastare il globo. A sovrastare il globo anzi è la macchina da presa, volendo. Usando termini filosoficamente abusatissimi (fino ad essere irritanti, lo ammetto) possiamo riassumere dicendo che in 2001 l’uomo trascende mentre in Solaris l’uomo si auto/conclude, si materializza. Un viaggio verso l’esterno contro un viaggio verso l’interno. Del resto, in 2001 gli uomini hanno principalmente contatto fisico con macchine, mentre in Solaris «l’uomo ha bisogno solo dell’uomo».  E l’uomo non solo ha bisogno dell’altro uomo, ma soprattutto ha bisogno di sé e della propria riflessione – sia nel senso del pensiero sia nel senso dell’immagine speculare.

La bellissima Hari, interpretata da Natalya Bondarchuk (che dopo il film si innamorò di Tarkovskij, e quando il regista le spezzò il cuore lei cominciò ad avere tendenze suicide: il metacinema che fa il suo giro…) è un personaggio chiave perché si manifesta soltanto attraverso le visioni di Kelvin all’interno della stazione Solaris, ed è quindi una sorta di insieme delirante tra il ricordo, l’interiorità di Kelvin stesso e il prodotto naturale di Solaris. Eppure, prova emozioni, informi forse, ma sincere. Ma sono le emozioni di Kelvin, di Solaris o addirittura, assurdamente, della stessa Hari? La proiezione emotiva supera l’uomo, l’interno dell’uomo (o il suo artefatto, il suo spazio coscienziale) lo sconfigge. È tutto un lavoro su interno-esterno, e non solo a livello narrativo ma anche a livello stilistico, con un alternarsi fluidissimo e suggestivo di inquadrature lontane dai corpi e primi piani, come delineando un lontano mutamento dello sguardo, un mutamento ossessivo e poetico del punto di vista. L’interno del corpo, l’interno dell’edificio, l’esterno dell’anima, gli spazi esterni: la natura che comincia fluida, movimentata, estiva e si tramuta in fredda, glaciale, bloccata nel tempo o forse fuori dal tempo. Ironicamente, il chiudersi a spirale della trama diventa anche un aprirsi delle immagini, che infatti nel finale donano una specie di dissolvente de-zoom che identifica lo spazio più ampio immaginabile, quello del mondo, come uno spazio ormai dominato dall’inesperibile oceano surreale e extraterrestre, la forza vitale che circonda tutto senza toccare niente. E qua possono scaturire anche delle interpretazioni su cosa, davvero, vuole significare il pianeta Solaris: una specie di mare dell’Es, della porzione più brutalmente sincera, violenta e impulsiva della nostra interiorità; o forse l’URSS, sorvegliata da stazioni che sono satelliti; o forse ancora è un pianeta che rappresenta, banalmente, il nostro pianeta, ma in una sua versione alternativa, lontana da noi, paradossale. L’idea di base però rimane che Solaris è una specie di spazio della coscienza, in cui si materializza ciò che nel nostro intimo è più importante e ormai perduto.

Allora da questo punto di vista non può che venirci in mente che Solaris descrive, molto prima della cosiddetta “crisi del digitale” di cui finiamo per parlare in continuazione (che sia Herzog o Joji Miller, che sia Wenders o l’archeologico tarantiniano, che sia Malick o la Suwichakornpong), una spazialità eterea – nella quale ci si perde. Solaris è un vero e proprio mondo cinematografico all’interno del cervello, che però si espande verso l’esterno e diventa scenografia: come il pixel che rappresenta l’emozione o la vita umana stessa tra Inside Out e 11 Minuti, creando una specie di visione probabilmente pessimista in cui l’uomo è definitivamente figura digitalizzata e separata, così in Solaris si ha una visione ben precedente e ben diversa, ma legata davvero agli stessi concetti. Il mondo-Solaris, ovvero lo spazio geografico ma anche il titolo del film, è un luogo creato ovviamente con i mezzi filmici, un luogo oltre il reale. E Tarkovskij lo crea con un effetto speciale artigianale, impegnandosi sull’atmosfera più che sulla credibilità; è qui, anche, che si presenta davvero questa manifestazione dell’irreale/reale che è interno/esterno, dell’uomo/mondo che è anima/corpo: ovvero che la ferita corporea (e auto-inflitta) della Hari inter-coscienza di Kelvin non è una ferita reale, ma è un trucco cinematografico. Dunque, l’essere umano reale (che interagisce con l’altro essere umano reale, anzi col vero e proprio protagonista dell’intera opera) è un effetto speciale, è un umano disumano che supera le barriere e va verso l’oltre-coscienza, ovvero la realtà cinematografica, l’assurdo che diventa realtà. Non a caso, le riprese che si vedono appena prima della partenza di Kelvin per Solaris sono le riprese documentaristiche di Tokyo: una sovrapposizione geniale, la tristezza folle del reale come preambolo per la rilassata, cupa, fredda e angosciante meraviglia dell’irreale. Fondamentale, dunque, che lo specchio sia parte integrante della scenografia del film, che ci si rifletta, ci si ritrovi, non necessariamente nell’altro ma anche nella riflessione di noi stessi, nell’interiore, nel reale che diventa nello specchio irreale o nell’irreale che diventa paradossalmente reale. Comunque mantenendo tutta l’immagine sotto la lente della finzione cinematografica, che mostrifica tutto. Tarkovskij trasforma il plastico in poetico, il conflitto più disumano in meraviglia, la morte in vita, la freddezza ferma in una “bella immagine”. E se il padre di Kelvin sul finale non si rende conto della pioggia che gli cade addosso dentro casa, noi spettatori ci rendiamo conto prepotentemente della pioggia di immagini che ci cade addosso, la pioggia di bellezza che ci riempie gli occhi, lo sguardo e l’anima, come creando un’immedesimazione empatica più nell’immagine e nella frase occasionale che nella trama, negli eventi, nel sorriso drammatico di Hari, nella macchina da presa che entra nei quadri di Bruegel, nelle figure esterne agli scienziati che circondano Kelvin (le loro Hari: bambine, nani, orecchie di figure umane invisibili, fuori campo).

Le ossessioni di Tarkovskij sull’intimo e sulla famiglia sono tuttavia forse la caratteristica che più di tutte rende Solaris un film che in effetti supera le barriere dei generi, nonostante ciò non sia l’opinione del regista. I piccoli spazi reali, poi onirici, poi analettici, che definiscono all’interno dell’inquadratura una storia familiare che non viene esplicitata e che rimane solo e solamente un’impressione (narrata, magari, da un video-diario fluttuante e privo d’audio): questa è la maniera con cui Tarkovskij delinea il “fuori-trama”, come uno spazio definitivamente melodico, fluido, tranquillo, ma ciò non toglie che sia tragico – e il fatto che sia tragico non ha a che fare con la narrativa di per sé, visto che il sottofondo personale e famigliare di Kelvin è sfumato e indefinibile, anzi, il fatto che sia tragico è legato proprio al suo essere sfumato, indefinibile, lontano. Sembra quasi di vedere, 11 anni prima, il mondo/nulla mentale proprio di Nostalghia; oppure lo sguardo infantile di Ivan e l’apertura enfatica degli spazi di Andrej Rublëv, il senso della parentesi poetica eterna de Lo specchio e la crisi di Stalker, e la bruciatura apocalittica di Sacrificio. Insomma, l’intimo diventa, nel montaggio, la principale via di fuga di Tarkovskij e di Kelvin dalla realtà verso lo spazio invisibile e meraviglioso dell’oltre la fantascienza, tra le note di Bach, levitando nell’aere poetico verso il cielo della Storia del cinema, per sempre.

Nicola Settis

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“Solaris” (1972)
167 min | Drama, Mystery, Sci-Fi | Soviet Union
Regista Andrei Tarkovsky
Sceneggiatori Stanislaw Lem (novel), Fridrikh Gorenshteyn (screenplay), Andrei Tarkovsky (screenplay)
Attori principali Natalya Bondarchuk, Donatas Banionis, Jüri Järvet, Vladislav Dvorzhetskiy
IMDb Rating 8.1

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