SOFICHKA (2016), di Kira Kovalenko
Prima di tutto, Sofichka è una falla nel sistema. Sin dai primi cartelli che lo introducono, l’esordio alla regia della giovane Kira Kovalenko che trova la sua prima italiana fra gli Sguardi Russi della 53ma Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro mette in luce una sorta di dicotomia produttiva, che vede da una parte i finanziamenti del Ministero della Cultura della Federazione Russa, generalmente una sorta di ufficio propaganda di Putin o per lo meno ufficio censura verso ciò che lo attacca, e dall’altra Alexandr Sokurov, sublime regista e noto oppositore – con tanto di nave/cultura alla deriva nell’ultimo Francofonia – dell’attuale governo, che della regista è stato insegnante e che di questo film è ben più che sostenitore, ma quasi una vera e propria anima. Evidentemente, fra le maglie ministeriali del governo russo, qualcosa riesce ancora a sfuggire al controllo tematico, ben lontano da quell’ipocrita e interessata santificazione della Russia perpetrata dal Konchalovskij di Paradise, ben lontano da quell’immagine di Russia forte e orgogliosa che il governo vorrebbe il più possibile far passare e dare in pasto ai cittadini, ben lontano dall’autocelebrazione e dall’orgoglio nazionale revisionista e reazionario di chi a ogni costo ostenta sicurezza, faccia di bronzo e potenza politico-militare.
Tratto dall’omonima novella di Fazil Iskander, Sofichka è al contrario un film di macerie e di fedeltà che va ben oltre la morte, di dolorosi ritorni e di necessità di perdonare, di paure e di fragilità, di rapporti umani incartapecoriti e di risposta umanissima ai drammi storici, sociali e personali. È un film di esilio, di omicidio, di tradizioni, ma anche e soprattutto di un amore infinito, al di là del tempo e dello spazio, al di là della Storia. È un film di opposizione, di riappropriazione, di riflessione intima sul passato, come una piccola scheggia “impazzita” in una cinematografia ormai troppo spesso piegata alle necessità politiche nazionali; è un film che al pugno di ferro putiniano, che sfrutta la gloria sovietica per virare verso destra e verso un imperdonabile senso di superiorità, ribatte con un ritorno all’umano, al sentimento, ai rimorsi ancestrali, al perdono più doloroso.
È la memoria, il tema principale su cui si snodano le ellissi di Sofichka, prima episodiche, lontane come un trauma, e poi di una forma e di una sostanza sempre più definite. Quello di Kira Kovalenko, scritto insieme al Kantemir Balagov che quasi in contemporanea ha esordito con il suo Tesnota – Closeness che tanti applausi ha ricevuto in Un Certain Regard all’ultimo Festival di Cannes, è un film al contempo amaro e accorato che mette in scena l’Abkhazia fra il 1938 e il 1960, ovvero negli anni in cui le vite degli abitanti sono state stravolte dalla sanguinosa guerra contro i tedeschi sul fronte orientale – che ancora oggi nella regione della Georgia chiamano Grande Guerra Patriottica in un certo senso separandola dalla Seconda Guerra Mondiale di cui era una sostanziosa parte – e dalle deportazioni di Stalin verso la Siberia. L’opera prima della Kovalenko è un film a suo modo di resistenza, una rinconquista della cultura e della vita rurale di una regione martoriata, che riporta in vita proprio in quegli anni la lingua abkhaza contro la quale l’URSS attuò una feroce repressione facendo interpretare il film ad attori locali, quasi rigorosamente non professionisti.
Quello della protagonista Sofichka è un ritorno alla propria terra e alla propria casa dopo 20 anni di (volontariamente) deportata assenza, fatto di un passato che torna a emergere nelle sue ferite eternamente aperte e di un presente dal quale provare a rielaborare i propri fantasmi esistenziali. Nel mettere in scena tutto questo, Sofichka è un confronto che diventa anche fisico, fatto di voci fuori campo incalzanti come una coscienza, fatto di una protagonista ormai anziana che, ricostruendo la sua vita, assiste nuovamente come un’emozionata spettatrice ai drammi del suo passato, mentre la sua versione giovane spia da uno stipite le sue scelte future, vedendo i cocci di una vita tornare progressivamente a comporre un qualcosa di unitario e basato sul cuore. Negli interstizi fra passato e futuro, quella di Sofichka è una vita che letteralmente scorre ancora una volta davanti agli occhi di chi l’ha vissuta, di chi ha scelto un amore osteggiato dalla famiglia, di chi ha visto il proprio marito ucciso da un fratello geloso e ripudiato, di chi è rimasta sempre fedele anche di fronte alle pietre tombali, continuando quotidianamente a parlare con quell’amore che non c’è più, a chiedergli consigli, a sentirlo vivo, sulla propria pelle e nella propria anima. Sofichka è sopravvissuta alla miseria, alla repressione, allo sfaldarsi della propria famiglia, alla morte dei propri affetti più cari, alla Siberia, e ora torna a casa camminando sulle macerie della propria vita e della propria terra, tentando di trovare una forma alla propria narrazione.
Sofichka mostra, quasi come un documentario, la vita del tempo in Abkhazia. Ne mostra le tradizioni, lo spirito contadino, gli stravolgimenti e le sofferenze dettate dalla guerra. Ne mostra gli uomini e le donne, i saluti mattutini e gli appuntamenti alla sera, i panni da lavare e i tronchi da tagliare. È a conti fatti una storia semplice, che rinuncia però alla linearità perché la memoria è sempre frammento, riflessione e ricomposizione. C’è la morte, ci sono le privazioni, ci sono le fughe e gli aiuti a chi diserta il fronte, ma soprattutto c’è la protagonista Sofichka, che nonostante tutto continua a credere nell’umanità, nell’amore, nella fedeltà, nei sentimenti. Negli uomini e nelle donne che ha di fronte e con cui si confronta, che possono morire, invecchiare, cambiare, ma resteranno sempre affetti, ricordi, esseri umani con cui si è divisa una fetta di vita. Resteranno sempre fratelli, che possono anche essersi macchiati della colpa più grave, possono anche essere stati rifiutati e allontanati per oltre vent’anni, ma dopo il ritorno a casa della protagonista, quando i fili del passato saranno tutti riannodati, non potranno che essere perdonati a costo di non mantenere una promessa di vita, a costo di lasciar esplodere i sensi di colpa per la mancanza di una parola di approvazione impossibile da parte della nuda terra che ricopre un marito che non potrà mai tornare. Quella di Sofichka è una storia di fedeltà, amore e fisica umana in un mondo sempre più disumano, è una ricerca di se stessi storica e introspettiva, è l’indissolubilità dei rapporti umani a costo di accettare volontariamente 20 anni in Siberia pur di continuare a stare accanto alla famiglia di un marito che non c’è più, è una nipote cresciuta come una figlia, è un preciso atto d’accusa contro la rimozione storica in corso in Russia rappresentata dal falò delle cose “vecchie che non servono più”.
È un film figlio dell’ala protettrice di Sokurov che, dopo averla formata, ha personalmente consigliato la novella di Iskander all’allieva. Sofichka è un grido di sensibilità e libertà che si nutre delle forme e del respiro della grande letteratura sovietica, è un mosaico di personaggi, di situazioni, di vite che si snodano intorno alla protagonista, centro gravitazionale dell’intreccio e centro emotivo dei messaggi. Sofichka ostinatamente vive, e intorno a lei (ri)vivono i tasselli esistenziali messi in scena da Kira Kovalenko nell’intersecarsi fra piani temporali ed eventi che si susseguono vorticosi, fra riappropriazioni culturali e messaggi smaccatamente antibellici, fra ricerche di umanità e una ben precisa lucidità politica e sociale così ostinatamente contro le direttive. Sofichka è un film forse non (ancora) perfetto, non privo di qualche momento sfilacciato nella sua struttura frammentaria, ma sarebbe un atto semplicemente folle non difenderlo, non considerarlo interessante nelle sue sovrapposizioni temporali, non considerarlo condivisibile e accorato nel suo impegno e nei suoi messaggi umani. È un esordio che colpisce, per libertà, forma e acume, per messa in scena e per afflato umano, per la sua necessità intima di amare, sbattuta in faccia come una medicina a chi, accecato dal potere o dalle sue forme di propaganda, non ne ricorda più il significato. Ma la memoria, prima o poi, ritorna, e con lei prima o poi torneranno le lacrime e il cuore. E a questo anche noi vogliamo credere fino in fondo.
Marco Romagna