L’uomo, l’animale, la ferocia, la tenerezza, la comunicazione (im)possibile. E inevitabilmente la morte, che dal fuori campo della cronaca non può che entrare di prepotenza nei quadri di Snow Leopard, tristemente penultimo lavoro di Pema Tseden giunto postumo fuori concorso all’80ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia (l’ultimissimo che ha fatto in tempo a girare, Have a nice trip o Stranger a seconda delle fonti, è attualmente in post-produzione e per ora genericamente annunciato per il 2024), quattro mesi dopo l’improvviso attacco di cuore e la morte a soli 53 anni del suo autore. Un piccolo e dolcissimo film che parte in un breve e polveroso viaggio in macchina dalla Cina verso la Regione Autonoma del Tibet, sulla cui rappresentazione il più possibile realistica e lontana dai vecchi stereotipi esotici l’autoctono (ma sempre di produzione cinese, inserito sin dai tempi degli studi nei canali ufficiali del sistema cinematografico della Repubblica Popolare) Tseden ha basato l’intera carriera, per mettere in scena la vicinanza e il conflitto, il ruggito e le fusa, la frustata e la carezza. Il rapporto ora idilliaco e ora violento dell’essere umano con la Natura, a partire da quello scontro fortuito dell’auto, per fortuna senza conseguenze per nessuno, con un asino selvatico, che non può che riportare sin da subito alla mente quella pecora inavvertitamente investita e invece uccisa dal camion di Jinpa. Solo che questa volta Jinpa, nome d’arte anche dell’attore che al tempo aveva interpretato l’autista, non è più al volante e nemmeno a bordo dell’auto che scontra l’animale, ma impersona quasi all’opposto la meta del breve viaggio della troupe giornalistico-televisiva, che sta andando nella malga di cui è proprietario a documentare l’aggressione di un leopardo delle nevi ai danni di nove fra i suoi migliori montoni. Con il feroce e rarissimo felino ufficialmente dichiarato in via d’estinzione e quindi da proteggere frettolosamente rinchiuso nel recinto, mentre il rude pastore di Jinpa vorrebbe ucciderlo in barba a ogni legge, o per lo meno usarlo come merce di scambio con cui ottenere dalle autorità un cospicuo risarcimento per compensare la perdita dei suoi migliori capi di bestiame che giacciono a terra inerti, mentre il di lui padre vorrebbe più saggiamente liberarlo e lasciarlo tornare alla montagna, dal suo cucciolo che appare e guarda da lontano.
Un’impasse che forse nemmeno l’intervento dell’altro figlio, fratello monaco del pastore e amico d’infanzia di uno degli uomini della troupe, potrà risolvere, o forse sì: è solo una questione di annusarsi e di riconoscersi, di animale e di umano, dei ricordi in comune di reciproca riconoscenza e di una carezza di perdono. Del resto lo chiamano “Monaco Leopardo delle Nevi”, «gli altri», conoscendo la sua passione per gli animali e quella per nascondere videocamere con cui filmarli da vicino nel loro habitat, ma probabilmente senza nemmeno sapere come qualche anno prima avesse salvato quello stesso felino ora rinchiuso in un recinto ulteriormente rafforzato con qualche giro di filo spinato da una morte per frustate, né come lo stesso leopardo bianco, un anno esatto dopo, lo avesse riconosciuto e a sua volta salvato da un sicuro assideramento portandolo letteralmente in groppa fino a consegnarlo a chi lo avrebbe scaldato e rimesso in piedi. Capendosi reciprocamente e affidandosi senza paura l’uno all’altro, in una comunicazione quasi francescana sospesa fra il linguaggio verbale e quello del corpo, fra gli odori e gli atteggiamenti, fra il vicendevole guardarsi negli occhi e l’ennesimo inequivocabile segno d’affetto. Un vero e proprio rapporto di amicizia, forse, vissuto nella simbiosi con la Natura e con i suoi scorci mozzafiato che dall’alto guardano verso i laghi ghiacciati, dove non esistono più l’uomo e l’animale, la lingua parlata e i gesti di rispetto e di sottomissione (si veda il momento in cui il monaco si lancerà nel recinto e finirà con uno sguardo per far scemare la furia del leopardo, mentre parte il primo dei flashback in bianco e nero a mostrare i loro precedenti incontri e la loro memoria), ma solo l’intesa, l’imprinting, la consapevolezza, la riconoscenza, la fiducia, il reciproco offrirsi. Del resto, chi è l’umano e chi è l’animale, nel momento in cui il felino è ormai definitivamente calmo ed è solo l’uomo a sognare la violenza? Chi è l’umano e chi è l’animale, nel momento in cui un leopardo delle nevi sembra quasi capire il mongolo e un uomo chiude a ogni dialettica per scegliere la via puramente istintuale della rabbia? Chi è l’umano e chi è l’animale, nel momento in cui da una parte conta crescere e nutrire i piccoli, e dall’altra il gelido ammontare di un indennizzo?
Basterebbe il momento di insostenibile tenerezza “rubato” dalla cinepresa al leopardo più che mai “gattone” con il suo cucciolo, oppure quella piccola festa di compleanno in cui ritrovarsi tutti insieme in famiglia a ridere e scherzare mangiando la torta e poi guardando insieme qualche documentario, o ancora quando una scavatrice riesce a togliere dal recinto uno dei cadaveri di montone, e qualcuno lo porterà da mangiare all’affamato piccolo del felino, che osserva il genitore in gabbia “in attesa di giudizio” e ne piange da lontano la mancanza. Pennellate (poco importa quanto ci sia di CGI, quando è questo il risultato lirico e visivo) di una poetica umana e dolcissima, in cui Snow Leopard indaga e risolve il rapporto strettissimo e contraddittorio fra il brutale e il sublime, fra la ferocia e l’amore, fra la quiete e la tempesta. Un po’ come il cieco (o forse sarebbe meglio dire animalesco) infervorarsi del buono ma cocciuto pastore ogni volta che deve raccontare (alla telecamera in una strepitosa oggettiva-soggettiva-oggettiva, ai rappresentanti del governo giunti a tentare di convincerlo a liberare l’animale senza condizioni, o ancora alla polizia cinese chiamata per calmarlo) il salto nel recinto della notte precedente e come la carneficina perpetrata del leopardo lo abbia pesantemente danneggiato, a tratti non aiutato nella comunicazione dalla barriera linguistica fra il mandarino e il mongolo, ma forse soprattutto incapace di esprimersi in un altro modo meno rabbioso, finendo per creare ulteriori fraintendimenti sui fraintendimenti, ulteriore impasse sull’impasse, ulteriore nervosismo sul (suo) nervosismo. Specialmente quando basterebbe uno sguardo, una carezza, una parola sussurrata, un gesto di distensione nei confronti di una fiera che non aspetta altro che chinare il capo, strusciarsi e fare le fusa chiedendo un contatto fisico, ringraziando ancora una volta gli uomini per essere stata liberata, e quasi scusandosi per quell’istinto felino che l’ha portata per una notte a far vacillare un rapporto di reciproca convivenza. Non le resterà che raggiungere il suo piccolo per coccolarlo ancora e poi sparire insieme felici nella neve, oltre le asperità della montagna. Ci piace pensare che Pema Tseden, allo stesso modo, abbia solo fatto un piccolo balzo oltre un dosso, in attesa di ripresentarsi più dolce che mai in quello che sarà il prossimo incontro. Almeno una volta, per fortuna, succederà. Anche se sarà davvero l’ultima, dopo la quale resterà solo lo spazio per la malinconia, per l’amarezza, per il rimpianto di un evidente talento che ancora tantissimo avrebbe potuto dare al cinema. Perché la vita, e soprattutto la morte, purtroppo non sono un film, e messe in combutta col destino sanno essere più feroci di qualsiasi legge, di qualsiasi bestia, di qualsiasi uomo.
Marco Romagna