SLOCUM ET MOI (2024), di Jean-François Laguionie
«È un film sensibile al meteo», dice ridendo lo stesso Jean-François Laguionie, ottantaquattro anni di cui quasi sessanta passati fra i lucidi e le chine, dal palco della Salle Bazin. Ed effettivamente è un paradosso che proprio il vento, vero e proprio co-protagonista di un film che è un diario di bordo autobiografico e dolcissimo della giovinezza e delle ossessioni più ricorrenti del regista, avesse in un primo tempo costretto ad annullare la sua proiezione unica prevista in anteprima mondiale al 77mo Festival di Cannes poche settimane prima del passaggio in concorso ad Annecy. Del resto, era già dal momento dell’annuncio che non sembrava esattamente la decisione più saggia (né particolarmente rispettosa nei confronti di un illustre decano che da decenni contribuisce a rendere grande l’animazione francese) quella di affidarsi alla fortuna di un meteo propizio nella sezione più laterale e seminascosta fra quelle ufficiali, il Cinéma de la Plage all’aperto, gratuito e dedicato in realtà ai turisti ben più che agli accreditati, e il resto lo ha fatto l’alzarsi di un improvviso Maestrale che ha cominciato, proprio all’ora prevista per l’inizio dello spettacolo, a gonfiare dal retro lo schermo come una grande vela impazzita e ingovernabile, evidentemente troppo in tensione perché potessero essere garantite le minime condizioni di sicurezza al pubblico già fatto sistemare sulle sdraio. Da qui l’obbligato stop, ma anche – va detto – la prontezza da parte della perfetta macchina organizzativa di Cannes nel rimediare all’errore di programmazione (che sia stato causato da buona fede mista sfortuna o dal consueto sussiego con cui i grandi Festival guardano all’animazione mentre spergiurano di amarla, sempre di un evidente errore di programmazione si trattava) trovando uno slot in cui riprogrammare Slocum et moi già nell’arco della giornata successiva, questa volta all’interno del Palais per un pubblico giocoforza più ristretto ma con ogni probabilità più consapevole e specializzato, e con Thierry Frémaux a fare personalmente gli onori di casa. Una cortesia che non tutti i Festival sarebbero stati in grado di garantire, e che – questo è ciò che conta – ha permesso di recuperare prontamente la visione perduta. Sempre in proiezione unica e sempre seminascosta fra le pieghe del programma, anzi addirittura aggiunta a metà giornata nel sistema di prenotazione quasi alla chetichella, fuori orario, senza nemmeno diramare una mail per avvertire gli accreditati, ma facciamo finta di nulla: fingiamo che, vista la metafora marinaresca di Slocum et moi, fosse in qualche modo parte del gioco andarsi a cercare il film come una perla nascosta, come il più classico tesoro a bordo di ogni più tradizionale vascello. Anche se, una volta tanto, non c’è alcun tesoro trasportato nel costante navigare, in mare aperto così come nel giardino di casa, nel passato così come nell’immaginario e nella fantasia, di Slocum et moi. O meglio, c’è, ma non è un tesoro di dobloni e gioielli: è un tesoro affettivo, un lascito mai dimenticato, decisivo come la nascita delle passioni su cui formarsi come individui, profondo come l’amore che per sempre legherà un padre e un figlio. Un amore più forte della biologia, più forte delle incomprensioni, più forte della vecchiaia, più forte perfino della morte. Un amore che guida la matita di Laguionie tavola per tavola, in questo racconto a cuore aperto del suo rapporto con il padre Pierre, marito della madre che lo ha cresciuto sin dall’alba dei ricordi – mentre il padre biologico si farà vivo solo più avanti, a metà dell’adolescenza del regista, e rimarrà il ricordo sbiadito di una vacanza con uno sconosciuto. O forse sarebbe meglio dire che Laguionie racconta a cuore aperto il suo rapporto con Slocum, affettuoso soprannome con cui gli amici chiamavano Pierre, perfettamente consapevoli della sua grande passione per Joshua Slocum primo navigatore di sempre a realizzare, fra il 1895 e il 1898, il giro del mondo in solitaria. Un maestro da seguire con così tanta determinazione da mettersi a costruire nel giardino di casa, pezzo dopo pezzo, una perfetta copia della barca con cui aveva compiuto l’impresa, in un lavoro di passione, pazienza e artigianato lungo diversi anni, proprio come tre anni era durata la navigazione solitaria del primo e originale Slocum, e proprio come ci vogliono ogni volta anni di passione, pazienza e artigianato per dare vita a un film di animazione.
Sta probabilmente proprio qui il principale souvenir de jeunesse che avrebbe influenzato più di ogni altro Jean-François Laguionie, la lezione di vita, d’arte, di sentimenti e di passioni su cui fondare la propria esistenza e la propria carriera. Imparando il valore della pazienza, dell’immaginazione da trasformare in realtà mettendoci il tempo e i ripensamenti necessari, della necessità di saper aspettare e di non cadere nei pessimi consigli dettati dalla fretta. Del saper leggere e (ri)pensare (la vita) per immagini. Ma anche l’amore per il disegno, per la vela, per il cinema (con Gary Cooper e Clarke Gable indiscussi idoli d’infanzia), passando per quella ragazzina che per prima ha fatto battere il cuore (e magari per il ritrovamento di quel cadavere galleggiante che, durante il primo campeggio romantico insieme, per poco non lo ha fatto fermare). Ma soprattutto passando per un padre in cui riconoscersi e con cui formarsi lungo il lungo arco (narrativo) dell’adolescenza, fino a riscoprirsi inevitabilmente cresciuti. Da una parte la nascita di una fascinazione verso il mare, verso le passioni umane e verso lo scorrere del tempo che, nel corso di tutta la carriera, non si sarebbe mai esaurita, e dall’altra la consapevolezza di potere riflettere appunto sul tempo solo lavorando in modalità produttive necessariamente fuori dal tempo, mettendoci anni per forgiare storie che a loro volta si estendono per anni, magari su più piani narrativi intrecciati. Fra sogno e identificazione, fra la tempesta a cui sopravvivere in mezzo all’Oceano di fine Ottocento e il forte temporale in arrivo da cui salvare lo scheletro della barca in costruzione negli anni Cinquanta, fra la prima adolescenza in casa con i genitori e la maturità del ritorno dall’Accademia di Parigi. Dal bambino di dieci anni del 1949 al giovane adulto del 1955, per correre fino a quei primi anni Sessanta che lo avrebbero portato nel ’65 al primo cortometraggio La Demoiselle et le Violoncelliste e magari tornare indietro ai viaggi degli esploratori di fine Ottocento con cui sognare di girare il mondo e anzi farlo senza uscire dal proprio giardino, nel definitivo intrecciarsi di un legame fatto anche di gusti, di immaginari e di passioni in comune fino alla scelta di dedicare un intero film (che si spera non sarà l’ultimo, ma che per molti motivi potrebbe perfettamente esserlo) alla memoria di quella figura familiare così fondamentale nella formazione umana e artistica dell’animatore transalpino. Un film in cui, come da presentazione, «tutto ciò che vedrete è realmente accaduto», nel quale ritornare al carboncino e agli acquerelli di ieri e di oggi, alla scuola di disegno dell’adolescenza e allo stile asciutto che aiuta con un’invisibile CGI la base portante in animazione tradizionale, a quella carta evidente e fisicamente pesante già al centro della parabola di tempo e di morte di Louise en hiver. Un film (e un filone poetico e introspettivo) dal quale, molto più che dal precedente (e dal tratto ben più marcato e spigoloso) Le tableau o dal successivo (e in co-regia) Le Voyage du prince, è per Laguionie inevitabile ripartire, stilisticamente e tematicamente – con tanto di ultimi giorni al capezzale di una nonna in cui finalmente riuscire a parlare sì da padre e figlio, ma anche da uomo a uomo che nel lutto si scoprono più maturi e più grandi –, muovendosi allo stesso modo su fondali meravigliosamente abbozzati così come è inevitabilmente sfumato un ricordo. Senza bisogno di sovrabbondanze di dettagli, ma con un tratto dolce e apparentemente semplice su sfondi ora più definiti e ora semplicemente schizzati, spesso monocromatici, rigorosamente tenui e leggermente ambrati nelle loro colorazioni pastello. Mentre la vita procede inesorabile nel passare dei giorni, dei mesi e degli anni, fra un disegno e un’accademia d’arte, fra un Atlante (“d’intesa”) e un diario di viaggio, fra un fratello «diverso» e un piccolo incendio da domare. Fra la quotidianità e la sua straripante poetica. Fra un tenero tenersi per mano e un inestimabile incrocio di sguardi, di padre e di figlio, nello specchietto retrovisore.
Marco Romagna