SLEEP HAS HER HOUSE (2017), di Scott Barley

C’è l’acqua dei ruscelli e delle cascate, c’è l’aria che spira nel vento mentre percuote gli alberi, c’è la terra nella quale le piante affondano le radici. E poi c’è il fuoco, quello rosso e giallo che scalda e brucia, potenza distruttrice e fascino ancestrale; quello bianchissimo delle saette nel cielo, flicker naturale che splitta, divide, illumina a giorno spezzando qualsiasi oscurità. Per una frazione di secondo, ma è pienamente sufficiente questa frazione di secondo, il lampo illude, come il cinema. Perché il cinema è prima di tutto illusione, inganno, a un occhio che crede al movimento quando è messo di fronte a ventiquattro fotografie al secondo come a un cervello che elabora, come un credulone, quello che l’occhio ingannato vede. O non vede. Perché per poter guardare davvero la natura e i suoi elementi ci vuole un occhio che faccia parte della natura, puro, incontaminato, selvaggio. Come quello di un cavallo, forse, o come quello della macchina da presa – un iPhone, in questo caso, come a dimostrare che qualsiasi mezzo va bene in presenza di reale talento visivo – guidata da uno sguardo rigoroso e contemplativo come quello che emerge dal 4/3 di Scott Barley.
“This movie is intended to be viewed in complete darkness”, questo film è concepito per essere visto nella più completa oscurità. Sleep has her house, primo lungometraggio del giovane filmmaker gallese dopo una lunga e apprezzata serie di corti/esperienza visiva presentato al DocLisboa 2017, richiede rigorosamente la sala, il buio completo, l’immersione totale nelle immagini, anch’esse fatte di oscurità, e nei suoni che le accompagnano, le amplificano quando il noise si sovrappone ai suoni della natura, le allungano sulla retina quando sullo schermo campeggia nuovamente il nero, il buio, la pura oscurità. Orgogliosamente antinarrativo, Sleep has her house è una sinfonia di elementi pronti a emergere dalla contemplazione della montagna, magari lentamente, come quell’infinita messa a fuoco iniziale, dilatata e voluttuosa, che trasforma quella che sembra una nube nell’acqua di una cascata svelando subito l’inganno del cinema, e così dichiarando immediatamente in quale senso il lavoro di Scott Barley stia ragionando, e sperimentando, sul mezzo e sulla sua lingua. Durante la notte, durante il sonno, il soprannaturale travalica la natura, la ingloba, la fagocita, la modifica, proprio come le inquadrature costituite da oltre sessanta diverse inquadrature montate insieme, magari unite a fotografie e dipinti dello stesso Barley, modificano il paesaggio fino a una realtà-altra, fatta di Galles e Scozia che diventano un unico bosco, fatta di natura incontaminata, luogo-simbolo. Sleep has her house è una ricerca del sublime, quello letterario, ciò che affascina ma al contempo atterrisce, in un cinema umanamente fragile e fortemente emotivo, espressionista e apocalittico, astratto e cacofonico, fatto di forme e di oscurità, fatto di colori e di contrasti, fatto di intimo stupore e di paure inconfessate, fatto di improvvisi squarci di luce e di reconditi incubi.

È una questione di sguardo, di capacità di osservare, di ricerca intima, prima ancora che cinematografica, dell’essenza più recondita del paesaggio, del cielo, degli animali che abitano un luogo ancora non intaccato dall’invasività della razza umana. Scott Barley lascia che l’indefinito acquisti definizione, ma mai definitezza, nella costante provvisorietà di un’acqua che continua a scorrere sempre nello stesso punto eppure sempre diversa, sempre fugace, costantemente perduta per sempre: è il rimpianto, è, appunto, l’illusione (del cinema), un tranquillo scorrere che diventa tornado, un’ipnosi di pensieri, immagini e suoni, la ricerca di una luce nell’oscurità. È illusione, come i tronchi che quasi sembrano figure umane addormentate sui campi, è illusione, come i riflessi sullo specchio dell’acqua che restituiscono una realtà capovolta, è illusione, come l’oscurità assoluta nella quale le immagini continuano a essere percepibili, digitali eppure fisiche, presenti, quasi palpabili. Cala la notte, torna il giorno con le sue nubi arrossate nel cielo, il sole lentamente tramonta, tornano le tenebre, tornano le stelle, e poi il cielo pare tagliato, parziale, squadrato dalle luminose saette. Mentre gli animali, innocenti, continuano a vivere, continuano ad amarsi, continuano a respirare, continuano a correre. Continuano a guardare, e forse a farsi ingannare da quello che (non/intravv)vedono.
“Le ombre delle grida corrono su per le colline. Era già accaduto, ma questa sarà l’ultima volta”. Inizia così la sinossi ufficiale, scritta dallo stesso Scott Barley, di Sleep has her house. Una sinossi che, sotto forma di cartelli, apre anche il film, introducendo tutta la sua esperienza ipnotica e illusoria, tutta la sua intima sincerità, tutta la sua riflessione sul cinema, sulla natura, sulla necessità di sguardo, ma anche di lasciarsi andare, di perdersi nelle immagini e nelle percezioni, di naufragare nel mare d’oscurità alla ricerca di un cerchio di luce. Non bisogna opporre resistenza al fuori fuoco, non bisogna cercare di decifrarlo, bisogna solo immergersi nella sua luminosità, nei suoi colori, nei suoi sbalzi, nei suoi flicker. Magari proprio in un flicker tondo come il mondo, cerchio di luce ipnotico come come una spirale, da osservare a occhi sgranati, lasciando emergere la propria intimità e la propria spiritualità, vedendo ognuno, in un certo senso, il proprio film, e riflessa nel proprio film la propria anima. Alle immagini al contempo idilliache e apocalittiche di Scott Barley si sovrappone il proprio vissuto, il proprio flusso di pensieri, la propria intima autoanalisi. Il proprio inconfessato, forse, per sentirsi meglio. Proprio come quel cavallo bianco nella notte.

Marco Romagna