A volte basta un piccolo dettaglio per distruggere una macchina apparentemente perfetta. Non solo una macchina organizzativa, ma anche un muro di interessi e ipocrisia, una coscienza, un’intera vita. A volte basta perdere un vecchio orologio da polso per creare un terremoto politico e un gorgo di falli di reazione, basta dimenticarsi di un particolare considerato insignificante perché gli interessi annientino ogni minimo residuo di umanità, diventino un’onda che tutto travolge e fagocita, nelle pubbliche relazioni della politica così come nelle ramificazioni della società tutta. In nome del quieto vivere pubblico, chi detiene il potere insabbia, incastra, calpesta, annienta ogni possibile intralcio alla sua marcia, anche e soprattutto quando consapevole di avere torto ma di “doverci mettere una pezza”. Ma a volte accade anche che il rimorso possa far rinsavire, possa far tornare sui propri passi, possa rasare quel drammatico pelo cresciuto nel frattempo sullo stomaco e far riemergere un cuore troppo a lungo sommerso dalla carriera. Slava (titolo internazionale Glory), opera terza del duo di registi e sceneggiatori bulgari Kristina Grozeva e Petar Valchanov, è un film piccolo quanto sincero e profondamente politico, capace di fare emergere tutte le storture di facciata della cosa pubblica e al contempo di mantenere ben salde le redini dell’umanità. Di quell’umanità, per l’esattezza, persa e solo tardivamente ritrovata nella finzione cinematografica dalla direttrice dell’ufficio pubbliche relazioni del Ministero dei Trasporti Julia Staikova, progressivamente distrutta dalla consapevolezza di avere completamente annichilito – e forse spinto al suicidio – un essere umano con la sola colpa di essere troppo onesto.
Ma andiamo per ordine. La gloria del titolo è quella di Tsanko Petrov, un umile, barbuto e solitario operaio addetto alla manutenzione della ferrovia, che ogni giorno cammina lungo la strada ferrata stringendo a dovere tutti i bulloni. Tsanko è timido, balbuziente, visibilmente ritardato, un puntino nello scacchiere sociale che un giorno, lungo il tragitto, si imbatte in una cospicua somma di denaro abbandonata sui binari e decide di consegnarla alla polizia. Le pubbliche relazioni del Ministero dei Trasporti, sotto l’organizzazione di Julia – una sublime Margita Gosheva che già al primo film del Concorso locarnese edizione 2016 si candida prepotentemente al premio come miglior attrice -, lo convoca in una cerimonia ufficiale: il momento di gloria, appunto, la celebrità warholiana, i premi per il cittadino modello, le foto con il ministro. Per consegnare a Tsanko uno squallido ed economico orologio da polso digitale, però, gli verrà letteralmente strappato dal braccio e poi smarrito il cimelio di famiglia avuto in regalo dal padre: l’errore tragico e dalle conseguenze imprevedibili di Julia, l’innesco del dramma, il vortice della spirale. Julia è quarantenne in carriera – emblematica in tal senso la prima visita ginecologica per la cura ormonale per rimanere incinta, passata quasi interamente al telefono guardando al desiderio di paternità del marito quasi come ad un intralcio –, un pezzo fondamentale nello scacchiere politico, il dietro le quinte del Ministero pronta a muovere ancora una volta i fili nelle direzioni più comode. Eppure, fra le iniezioni pressoché imposte da marito per stimolare l’ovulazione e il costante crescere dei sensi di colpa per avere così umiliato e ricattato Tsanko, ridiventerà progressivamente una donna, finalmente pronta ad essere una madre. Non senza lacrime e amarezza.
Ci sono due sequenze in particolare in grado di far emergere tutta la portata politica di Glory. La prima è una perfetta messa in scena di quanto possano coincidere politica e pubblicità: al termine della premiazione ufficiale, il ministro chiede ai fotografi che dovranno immortalarlo con Tsanko a che altezza arriverà l’inquadratura, per poi togliersi le scarpe e issarsi (berlusconianamente, ci sentiremmo di aggiungere) su un palchetto sopraelevato dal quale essere alto quanto l’ospite. Durante il photocall, ai due viene chiesto di parlare, e Tsanko fa presente al Ministro una questione, ben nota ma “scientificamente” insabbiata riguardante furti di gasolio, innescando una risposta piccata del ministro che, conscio di essere stato immortalato da sufficienti sensori fotografici, va via sdegnosamente, senza (potere-volere) rispondere. Nella seconda, la protagonista è Julia, pronta a chiedere alla polizia di incastrare l’innocente Tsanko portando a casa sua denaro segnato come rubato, sperando così di riuscire a ridurlo al silenzio. In realtà, Tsanko avrebbe solo voluto indietro il suo orologio, mai si sarebbe voluto infilare in giochi più grandi di lui, mai avrebbe voluto trovare quel denaro e distruggere così la sua precaria stabilità. Fra divertenti scambi di pantaloni ed interminabili attese nei bagni, punture nella pancia e diritti calpestati, interviste televisive e macchine da presa a mano, Glory si dimostra abile a fugare ogni possibile faciloneria retorica, rendendo la narrazione fluida e spartita fra le mille complessità della politica e delle pubbliche relazioni, i drammi e le conquiste personali, i giusti tempi comici e il lavoro di una coscienza che, attraverso l’arma affilata del rimorso, scava e sedimenta in Julia fino a riportarne alla luce l’umanità. È un film profondamente onesto, quello di Kristina Grozeva e Petar Valchanov, un film che sa esattamente cosa sta mettendo in scena, un film capace di fare delle ristrettezze di budget una precisa scelta linguistica, fra scavalcamenti di campo che fanno alzare il sopracciglio e una gestione ellittica dei tempi narrativi, pronti ad accelerare e rallentare con la stessa forza di un moto ondoso. Fino a un finale d’un sollievo amaro, incontro-scontro d’emozioni, gioco di sguardi e di coscienze, cuore straziato, capelli strappati, occhi neri. Dignità persa e ritrovata.
Marco Romagna