Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?
A volte un silenzio può essere più assordante di mille grida, più cupo di un qualsiasi suono d’agonia, più drammatico di ogni parola. Perché “In principio era il Verbo”, ma a volte anche la Parola di Dio può sembrare sfiatata, mozzata, drammaticamente assente, sopita fra le nebbie della Storia e dei suoi misteri. Il silenzio di Dio è quello che si percepisce fra le viscere di fronte all’atroce sofferenza di chi muore martirizzato in suo nome, il silenzio di Dio è quel dubbio che fa necessariamente parte della Fede, il silenzio di Dio è un sentimento di impotenza, un’identificazione allegorica in uno specchio d’acqua tanto forte e sincera da rivelarsi, come tutto ciò che è scritto sull’acqua, solo come un inganno della più peccaminosa superbia, fino al ritorno inevitabile alla natura umana in quanto esseri fallibili, troppo piccoli di fronte al destino, inetti di fronte a una realtà con cui si deve sempre e necessariamente tornare a fare i conti. O forse non proprio inetti, perché a volte dipende solo dalle scelte, fra umanissima debolezza e amore ancora divino. Basta guardare in basso, verso la polvere, verso l’immagine sacra, vivere la necessità di quel drammatico passo, capire finalmente la propria coscienza, la propria natura e quella del mondo circostante. È il Mistero della Fede, sono le infinite vie del Signore, o forse è solo un percorso verso se stessi. Perché la vita è fatta di compromessi, di apparenze, di immagini, e anche la religione, per quanto la Fede di un uomo possa essere granitica al punto di fargli sopportare qualsiasi tortura prima di morire per proteggere i sacerdoti, viene giocoforza adattata a una millenaria cultura locale che traduce la parola “Dio” con l’equivalente di “Sole”.
Silence è il film che Martin Scorsese voleva fare da quasi 30 anni, da quando nel 1988, appena terminata L’ultima tentazione di Cristo, gli venne regalato il romanzo epistolare di Shusaku Endo che narrava del viaggio degli ultimi missionari portoghesi durante le persecuzioni dei cristiani nel Sol Levante della metà del 1600. Era il medioevo nipponico, in cui all’epoca Sengoku – fatta di feudatari in lotta fra loro ma in commercio con l’Europa, di missionari cattolici ben accolti per cementare il rapporto con l’occidente e di centinaia di migliaia di conversioni –, la Storia aveva sibillinamente fatto succedere, dopo la battaglia di Sekigahara, l’inizio dello shogunato della famiglia Tokugawa, destinata per oltre un secolo e mezzo a superare con la dittatura militare del governo di Edo – ribattezzata in seguito Tokyo – persino il potere imperiale che rimase a Kyoto: fu un periodo di chiusura all’Europa con una stretta politica di isolamento del Giappone, in cui i cristiani furono perseguitati, costretti alla pubblica abiura calpestando simboli religiosi e massacrati in migliaia di carneficine. La sola Olanda venne ammessa nei porti nipponici, proprio perché aveva bombardato un castello in cui si erano asserragliati i cristiani e a patto che non trasportasse assolutamente nulla di religioso. Ma tutto questo, in Silence, Martin Scorsese non lo dice, o lo fa scoprire poco a poco, evitando con intelligenza qualsiasi tipo di “spiegazione” del contesto storico in modo che il Giappone del ‘600 – perfettamente ricostruito a Taiwan – sia per lo spettatore quello stesso mistero insondabile e pericoloso di fronte al quale si trovano, rimanendone invischiati, i due protagonisti, Padre Rodrigues (un sorprendente Andrew Garfield di sguardi attoniti e intimo dolore) e Padre Garupe (Adam Driver), partiti alla ricerca del loro maestro spirituale padre Ferreira (un Liam Neeson in uno dei ruoli più difficili della carriera) del quale si dice che abbia abiurato e si sia convertito al buddismo.
Martin Scorsese, nella sua prolifica filmografia, ha saputo modificare continuamente e in modo radicale stili e tematiche, adattandoli di volta in volta al genere e alla narrazione scelta. Eppure, che si trattasse di vecchi pugili, giovani o attempati gangster, reduci disturbati alla guida di taxi notturni o magnati della finanza posseduti dalle droghe e dal proprio ego, quando non addirittura Cristo/Defoe dilaniato di fronte alla propria croce, gli antieroi e i film del regista italoamericano sono sempre stati pervasi da una profonda spiritualità, da un’ossessione per la colpa, per il dilemma morale, per il peccato, per la violenza, per la religione. Lo sguardo di Scorsese è quello di un profondo credente, che fu seminarista ma che a un certo punto fra le due grandi vocazioni scelse quella per la celluloide, abbandonando l’ostensorio ma mai la Fede. Così come era profondamente cattolico lo sguardo di Shusako Endo, fra i pochissimi scrittori giapponesi appartenenti alla minoranza cristiana. Sono quindi due sguardi religiosi, quelli che hanno dato vita al romanzo e ora al film, eppure sono due sguardi che sempre hanno confrontato la propria Fede e la propria spiritualità con il dolore reale, con la materia, con la violenza da sempre legata a doppio filo con la religione, con il ruolo dell’uomo, con il dubbio più profondo e ancestrale. Due sguardi capaci di cogliere le profonde contraddizioni della Fede, i veri e propri crimini perpetrati nei secoli da parte della Chiesa con i messaggi di pace messi da parte per ragioni economiche e politiche, la dicotomia fra evangelizzazione e colonialismo, il confine fra intima essenza e pubblica immagine, i milioni di morti, dalle Crociate all’Inquisizione, nel nome di Dio, che si fosse da una parte o dall’altra. Due sguardi capaci di cogliere la profonda attualità dell’allegoria cristologica, il suo valore paradigmatico, che fossero riferimenti al recente olocausto o alle persecuzioni nipponiche degli anni Sessanta contro gli studenti comunisti costretti al pubblico voltafaccia, o che siano oggi questi ultimi dilaganti anni, dalla questione irrisolta della Striscia di Gaza agli attentati marchiati Isis. Di religione si muore, ancora oggi, così come ancora oggi si muore di imposizioni, di rappresaglie, di ricatti, di interessi, di tracotanza, di perdita di umanità: il silenzio di Dio, in questi momenti, è più assordante che mai. Nel silenzio di Dio si rimane soli, devastati, impotenti di fronte a un corpo che galleggia ormai senza vita o a una testa che corre per un cortile lasciando a terra una leggera striscia di sangue, mentre la Fede è forza ma anche e soprattutto causa di rappresaglie sempre più dure contro altri esseri umani: dov’è in quei momenti il Verbo? Dove la parola di conforto? Dov’è Dio? E chi è l’uomo? In Silence la Fede si confronta continuamente con il trascendente, con il realismo, con l’umano. Quando il divino viene affogato nel sangue, lo sguardo non può che tornare laico, ancorato alla terra: non più la Parola nel mondo, ma al massimo Dio dentro l’uomo, (ben) nascosto. Il confine fra oppressore e oppresso si assottiglia progressivamente, fino a ribaltare i ruoli, fra punti di vista incompatibili e traumatici ritorni alla sofferenza del terreno. Padre Garupe non avrà il tempo per sperimentare questo momento, destinato a morire nei suoi idealismi, ma Padre Rodrigues vivrà appieno la comunicazione e il reciproco scambio fra le due culture, capirà che su una “palude” come il Giappone qualsiasi sforzo per far attecchire l’albero del cristianesimo sarebbe vano, capirà la forzatura dell’esportazione di una cultura, per quanto possa essere la Verità, e saprà fare il necessario passo indietro. Che poi è fisicamente in avanti, a calpestare l’icona.
Silence è un film stratificato e complesso, fatto di tre narratori che cambiano dopo le relative abiure e di adattamento della Fede che si pone come paradigma storico di ogni imposizione. I cristiani clandestini del Sol Levante sono mossi da una Fede cristallina, eppure hanno bisogno di una guida così come hanno bisogno degli oggetti, di una croce di iuta, di una perla del rosario, cristianesimo sì ma come una sorta di aggiunta della figura di Gesù al buddismo e ai suoi animismi. Silence è un film che a un rigore estetico fatto di ieraticità, saturazioni abbacinanti, immagini livide e ancestrali soggettive sulle martirizzazioni a cui Padre Rodrigues assiste impotente, fa corrispondere l’afflato epico dell’epopea biblica e l’ambizione di un film teorico in grado di declinare la metafora cristologica in una riflessione che, al di là delle domande sulla Fede e sulla debolezza umana, sa anche porre al centro il mezzo cinema in quanto messa in scena, immagine, parola e rappresentazione. I kirishitan perseguitati devono calpestare un’immagine, e a nessuno importa in sostanza se la loro Fede, nel privato, rimarrà immutata: quello che conta per il regime Tokugawa e per l’inquisitore Inoue sono la pubblica abiura e la pubblica conversione al buddismo come tutela della tradizione giapponese. Il percorso di padre Rodrigues da “guida divina” che è necessario tutelare a costo di vite altrui a semplice essere umano con tutte le sue certezze infrante, le debolezze e la pietà, è declinato nel cinema, dipende dal cinema e ne è allegoria: sono la rappresentazione e la comunicazione i punti focali, da uomo a Cristo e poi ancora uomo, passando per Giuda/Kichijiro, traditore di professione eppure figura il cui ruolo è fondamentale perché la Passione possa avere luogo e salvare l’umanità. Silence, nel suo angoscioso viaggio fra le martirizzazioni, è in realtà prima di tutto una martirizzazione mancata, apice di crudeltà della realtà storica e sociale verso chi era andato a portare la parola di Dio e invece ne ha trovato il silenzio, fino a essere causa del massacro di uomini la cui unica colpa era quella di credere. Padre Rodrigues, così come prima di lui Padre Ferreira, era partito disposto a diventare un martire, e anzi guardandosi in uno specchio d’acqua vede il proprio volto sovrapporsi a quello di Cristo fra l’identificazione più pura e la superbia di chi vuole quasi sostituirsi a lui. Una volta catturato, però, non verrà ucciso. Verrà invece costretto a guardare chi continua a morire per lui e per la sua Fede, i kirishitan massacrati dalla spada, dalla natura – dal mare alla terra, passando per il fango e per la nebbia – e dai lenti dissanguamenti nelle fosse, avendo un solo modo per fermare la nuova “strage degli innocenti”: l’abiura, la conversione, la rinuncia alla propria missione e al proprio ruolo. L’abbandono del divino, o forse il reale completamento di un’umana divinizzazione attraverso un’umiltà che finalmente sostituisca la superbia. Silence, in questo, è cinema purissimo, che nel mettere in scena il Mistero della Fede si nutre di cinema e parla (anche) di cinema. Per farlo parte ovviamente dalla Trilogia del Silenzio di Dio bergmaniana, in particolare dal centrale Luci d’inverno e dai drammatici dubbi di Fede che attanagliano il sacerdote protagonista messo di fronte al mutismo divino, cita apertamente i viaggi per mare nella nebbia de I racconti della luna pallida d’agosto di Mizoguchi, guarda alle forme narrative di Akira Kurosawa e alle complessità nelle differenze culturali di Nagisa Oshima, fa sua la spiritualità di Rossellini e di Dreyer, e tortura con la stessa intima sofferenza del Pasolini di Salò. Mentre mette in scena come attore nel ruolo di Mokichi, fra i primi indigeni cristiani con cui i missionari vengono in contatto, un meraviglioso Shinya Tsukamoto, la cui martirizzazione su una variante più crudele della croce – senza dissanguamenti ma in balia dell’alta marea, in un annegamento progressivo lungo giorni di agonia che è fra gli apici emotivi e narrativi del film e forse dell’intera carriera di Scorsese – non può che vedersi in un certo senso come un completamento del lavoro sul corpo e sulle sue mutazioni che, da Tetsuo in poi, il regista e attore giapponese ha sempre messo al centro della sua poetica di ispirazione cyberpunk.
Silence è un film sulla Fede, sul dubbio, sulle culture diverse, sulla debolezza umana, sugli e(o)rrori perpetrati e subiti dalla Chiesa. È un film di immagine e di parola, in cui ogni singolo fotogramma e ogni singolo dialogo sono soppesati e bilanciati fra emozioni contrastanti e drammi etico-esistenziali. Silence è un film di fatica, di set fangosi, di sofferenza fisica, di vento violento, di cambi repentini del meteo, di capelli e di barbe che crescono, girato il più possibile in ordine cronologico per favorire l’immersione progressiva in un mondo sconosciuto e forse incompatibile. È un film potente, al contempo violento ed estatico, pronto a camminare sul filo della dicotomia fra morte orrenda e vita eterna; è un film simbolico, è una continua e reciproca scoperta, è un flusso emotivo che non si estingue con i titoli di coda ma che continua a sedimentare ben dopo la visione. Ed è un film dalla certosina ricostruzione storica, nella quale i riti sono eseguiti esattamente secondo le testimonianze dell’epoca, i costumi seguono perfettamente quella che era la “moda” del tempo fra i samurai, i contadini e i missionari, e persino gli oggetti di scena – dalle lampade alle spade – sono perfettamente compatibili con l’artigianato del Seicento nipponico. Eppure, Silence non vuole essere un film storico, ma piuttosto un film di messaggi che Scorsese voleva passassero più comprensibili possibile. Da qui la scelta, opinabile al punto da finire per sconfessare parte del progetto, di far parlare inglese – peraltro dal forte accento americano – a protagonisti che dovrebbero invece essere portoghesi. In un film in cui la comunicazione (e ancor di più l’incomunicabilità) ha un ruolo giocoforza primario, la scelta della lingua del grande pubblico di Hollywood in luogo di quella che la Storia narrata – a partire da personaggi realmente esistiti come Padre Ferreira – avrebbe richiesto, risulta come una forzatura, amplificata dai troppi giapponesi che parlano un ottimo inglese con i Padri. In un periodo in cui il cinema si è evoluto al punto da abituarci a diverse forme di multilinguismo e a registi di quasi ogni nazionalità che si ritrovano a girare in altre lingue, l’inglese marcatamente yankee di Silence pesa come un macigno sulle ambizioni del film, finendo per porsi come un limite non solo della credibilità o della ricostruzione storica, ma anche di parte delle stesse tematiche affrontate da un’opera in cui la parola – o meglio il Verbo – ha un ruolo così eminente e centrale.
Come pure sono limiti, per quanto decisamente più veniali, le decisioni di glissare sulla questione scintoismo/buddismo, presente in Giappone negli stessi anni, o di non parlare affatto di come i portoghesi, oltre all’evangelizzazione, abbiano portato nel Sol Levante e commerciato per lunghi anni le armi da fuoco, argomento oggetto di più d’una sostanziosa digressione nel testo di partenza. Inoltre, nel centrale fra i tre macrofiloni che costituiscono Silence (in sostanza: la partenza di Padre Rodrigues e di Padre Garupe e il loro incontro con le prime comunità di kirishitan; la loro separazione, uno martire e l’altro arrestato e processato; e infine l’incontro fra Padre Rodrigues e Padre Ferreira con l’abiura di Rodrigues come estremo atto di pietà per salvare vite umane) è evidente una piccola caduta di tono narrativo, che alla metà circa delle 2 ore e 41 che compongono il lungometraggio finisce per far ristagnare il film per qualche minuto, in attesa di ripartire per lo splendido crescendo finale. Ma questo accade in realtà molto spesso nelle epopee di Scorsese, quando l’ambizione è tanta il ritmo rischia di soffrirne, e non è certo un problema sufficiente per svalutare il grande cinema di uno dei maggiori registi viventi, che con il progetto trentennale di Silence torna a quella piena complessità e a quella mancanza di soluzioni certe e indolori che hanno fatto grande la sua opera. Nella capanna in cui verrà drammaticamente deciso chi verrà mandato a morte per non denunciare i “Padres”, nelle ripetute abiure di Kichijiro e nei suoi tradimenti, nell’insenatura in cui Mokichi impiega quattro giorni per spirare lentamente affogato dalle onde e nella devastante sequenza dell’abiura di Padre Rodrigues, Silence respira una complessità stratificata, che trova uno degli esempi più fulgidi nella metafora delle quattro concubine narrata dall’inquisitore a Padre Rodrigues per fargli capire come la presenza europea fosse ormai vista come una forzatura, alla stregua di un harem litigioso nel quale si può ritrovare serenità solo scacciando tutte le donne incapaci di accordarsi fra di loro e con l’uomo-Giappone. Padre Rodrigues era andato per portare la Verità, ma si scontra con un’altra verità, più locale, più urgente, più pressante. Una verità trascendente e fisica, in cui la spiritualità deve fare i conti con le circostanze, con il sangue, con la terra, con il dolore umano, con il dubbio, con la politica, con le differenze culturali, con la comunicazione: con le interpretazioni, sempre molteplici. E se quello che passa in cuore «Lo sa solo Nostro Signore», sempre presente anche nei suoi silenzi, l’immagine che conta è quella di un buddismo di facciata, di una moglie vedova imposta con i suoi figli, di una collaborazione con il governo alla ricerca di materiale cattolico proibito. O forse, quello che conta davvero è solo la fine, quando viene accesa la pira di perfetta tradizione nipponica, e stretto fra le dita di chi sta per raggiungere l’aldilà rimane un piccolo crocifisso, nascosto chissà dove per così tanti anni. Di silenzio. Di Dio.
Marco Romagna