Film dopo film, Cristi Puiu va considerato tra i grandi protagonisti di una cinematografia, quella rumena, tra le più importanti di quelle autoriali continentali. Ancora una volta, come nei precedenti, lavora con i più semplici sussulti di vita reale restituendone gli aspetti più drammatici, ma sempre nello spazio di concretezza della realtà che ormai lo contraddistingue. L’episodio di partenza è estremamente semplice. Nell’occasione dei quaranta giorni dalla scomparsa del patriarca della famiglia viene organizzata una conviviale (?) cena tra parenti; ma per mille variabili e fattori continuamente intrecciati sembra proprio che quella cena non debba/possa essere servita. Tutti sembrano essersi dimenticati del reale motivo di quell’incontro, e la tavola diventa il luogo perfetto di esternazione e rivendicazione familiare dove saltano gli altarini, volano parole grosse, e ogni rapporto pare non essere più quello di prima. Ma quando tutto sta per crollare, ecco la presunta riconciliazione, davanti ad un piatto di polenta si accennano risate, come se l’unico contenuto di quei piatti fosse davvero potuto essere solamente l’assurdo.
In Sieranevada, in concorso a Cannes 2016, Puiu fonde completamente il tempo della storia con quello del racconto, restituendo in presa diretta uno spaccato di rapporti complessi, un puzzle di difficile completamento, che sta a noi spettatori cercare di congiungere per aver un quadro più definito della Romania contemporanea, filtrata dal ritratto di una famiglia in un interno. Infatti, se si esclude l’apertura in strada (in realtà anch’essa “ripresa” attraverso l’abitacolo di un automobile) e una nuova e rapida discesa nel mondo che sarà esplosione del litigio (con sconosciuti) e apice di un’ironia amara fatta di ricordi, falsi ladri e sigarette, tutte le quasi tre ore del film fluiscono da camera in stanza, in un set circolare in cui il tinello rappresenta una specie di agorà mentre il resto della casa diventa funzionale come luogo di sfogo, dialoghi privati e riflessione, prima di ritornare in piazza, appunto. Un film che pare trasparente nell’inseguire il trascinarsi di questa cronaca familiare, mettendo a fuoco continuamente protagonisti diversi, che man mano giocano ai margini dell’azione. L’azione è appunto il verbo che ritorna ossessivamente al patriarca morto, mai esplicitamente citato ma motore stesso della narrazione, come innestato fra invisibili radio che passano da Fabrizio de Andrè a Maledetta primavera e abiti da fare indossare al delfino per tenere in vita il caro estinto. Il film fluisce e rifluisce nel chiacchiere tra tutti i vari membri della famiglia, che va dal banale al personale al politico, ma sempre con consapevole superficialità. Si parla di tutto in fondo ma, per gran parte del film, quasi mai di se stessi, come se si fossero già consumate ferite tra i protagonisti che noi non possiamo conoscere. Un intero mondo di rancori, di non detti, di individui a macerare, sempre con qualcosa da riparare, limare, fare aderire.
Un cinema di parole e di eterni ritorni, quello di Puiu, costruito con la stessa idea di ristrutturare un’azione passata, spesso con la sola azione dei dialoghi. Come in un eterno processo (alle intenzioni), si è in campo solo quando si parla. Il collante di tutta la narrazione diviene così di per certo l’ipocrisia di un particolare continuamente oggettivato nell’universale attraverso un microcosmo che non fa altro che definire l’assurdità della transizione (apparentemente lunghissima) del dopo Ceausescu. In quella sala da pranzo si mette in mostra una parata di figure (il soldato, il sacerdote, il web addicted, l’ex dirigente del partito, ecc ecc.) ognuna funzionale alla definizione del quadro, ma allo stesso tempo alla dispersività. Nella conclusione, ci si rende conto come l’equilibrio familiare (e quello sociale) sia solo retto da una continua serie di bugie e di falsità in cui si innesta il discorso sul contemporaneo, sempre più provvisorio e vacuo, oltre che devastantemente superficiale. Nella reiterazione di gesti e parole, nessuno pare salvarsi, a tratti neanche il film stesso che rischia spesso una deriva consolatoria e lievemente autocompiaciuta. La messa in scena di questo incontro in fondo non può quindi che dissolversi così, in un irrisolto, in una paradossale autoassoluzione (e dissoluzione) dei rapporti.
Erik Negro