Ci sono due costanti nella Storia: la guerra e il sogno (o anche: la distopia e l’utopia, se vogliamo vederla per assoluti). E se davvero, come dice l’amato (non da noi) Papa Francesco, ci troviamo in una “guerra mondiale a pezzi” – frase, questa, presa, analizzata e discussa più volte dalla redazione di Limes -, è anche perché sotto l’ala angosciante della desensibilizzazione dell’uomo nell’epoca del digitale il sogno pare una cosa lontana, un ideale fantasmico. L’arte, sotto certi punti di vista, è sempre stata la manifestazione sensoriale del sogno, cioè di un qualcosa che è fuori dalla realtà e che alla realtà si ispira e basta; e il cinema, di per sé, è spesso concepito come fabbrica di sogni (basti vedere Hugo Cabret (2012) di Martin Scorsese). Ma non bisogna dimenticare anche l’approccio sociale/sociologico che il cinema ha, anche stavolta, più o meno da sempre, approccio che si manifesta spesso con analisi politiche o rappresentazioni più o meno realistiche dello scenario della guerra: lasciando da parte i limiti che può avere il cinema di propaganda (ovvero quelli che portano alla manifestazione del sogno come parte del teatrino bellico), questo cinema tende a schiacciare il sogno con brutalità, ricordando di cosa è capace l’uomo al massimo della propria crudeltà. Un esempio notevole di ciò si può riscontrare in Va’ e vedi (1985), il capolavoro del bielorusso Elem Klimov che mostra, sostanzialmente, la guerra come un incubo tanto grande da superare l’individuo e l’innocenza dell’individuo, creando una straordinaria bellezza onirica e penetrante (di quelle che il cinema può arrivare a comprendere solo quanto è ai suoi punti più alti) tanto nelle scene di violenza quanto nelle scene di infanzia e ingenuità. Ma quest’ingenuità viene schiacciata, sempre. Per riuscire ad unire queste due costanti, forse, non c’è nessuno meglio di Hayao Miyazaki, che insieme a Isao Takahata è il più importante regista dello Studio Ghibli e un nome che ha pochi rivali in generale nell’ambiente del cinema d’animazione giapponese (Satoshi Kon, Katsuhiro Otomo, Osamu Tezuka, Yoshiaki Kawajiri, Eiichi Yamamoto, Hideaki Anno e Rintarō sono alcuni tra i pochi che possono gareggiare per l’oro con i due autori Ghibli). Ma mentre Takahata ha sempre voluto mantenere, dietro la facciata del sogno e del bello, una consapevolezza cupa, intimista e realista che rende molti dei suoi film inadatti al pubblico più giovane -compreso probabilmente il tutto sommato giocoso Pom Poko, 1994, ma il riferimento “bellico” non può che andare diretto allo straziante capolavoro Una tomba per le lucciole, 1988, a tutti gli effetti un film neorealista-, con una sensibilità puramente nipponica che lo rende forse ancora superiore al collega ma sicuramente meno immediato, Miyazaki è sempre stato un vero sognatore.
Nato nel 1941 nel bel mezzo della Seconda Guerra Mondiale, Miyazaki ha sempre dimostrato nella propria produzione una fortissima passione per il volo e un’enorme paura della malattia – entrambe cose spiegabili attraverso la propria biografia, considerando che il padre era il direttore di un’azienda che costruiva aerei a scopi bellici e che la madre ha sofferto per anni fino alla morte di tubercolosi spinale. Pacifista, in maniera che a volte sembra simpatizzare con il comunismo (v. Porco Rosso, 1992) e a volte con l’anarchia, convinto ambientalista, l’autore giapponese è sempre stato un regista capace di riempire lo schermo con colori sgargianti e scene d’azione impressionanti, ma non bisogna assolutamente dimenticare la sua prepotente sensibilità per la bellezza e per l’intimo (lo stesso intimo che è alla base del cinema di Yasujiro Ozu e, spesso, pure di Takahata), per l’emotività dell’innocenza e, appunto, per il sogno, nel senso allegorico più fantasy possibile del termine, spesso messo in scena con aerobiche scene di volo su velivoli dal design cyberpunk o draghi o creature di qualsiasi tipo. Sprizzanti di vita e di morte come i lavori dell’ultimo Kurosawa, ma magici come i classici Disney e riflessivi come Angelopoulos, i film di Miyazaki sono sempre stati più o meno adatti a tutte le età. Ma mancava un film nella sua opera che fosse solo e solamente una contemplazione adulta sui temi che, comunque, aveva sempre affrontato in maniera più o meno riuscita tra avventure rocambolesche e favole allegoriche. È qui che subentra il suo ultimo film, Si alza il vento, presentato in concorso a Venezia nel 2013 e che sembra dover essere l’ultima opera dell’autore in maniera definitiva – il suo film più autoriale e personale, quello che più parla del Giappone e, ironicamente, anche quello stilisticamente più europeo, nonostante una resa degli interni che ricorda i capolavori di Ozu.
Necessario partire dal titolo, che traduce una poesia di Paul Valéry, che recita «le vent se lève, il faut tenter de vivre» (più o meno: ‘si alza il vento, bisogna provare a vivere’). E il vento è il leitmotiv dell’ultimo Miyazaki; in ogni singola inquadratura, a parte alcune scene oniriche e alcune in interni, c’è sempre qualcosa di mosso dal vento, come se fosse il respiro costante della natura, che ricorda al protagonista Jirō Horikoshi che il suo sogno esiste e deve resistere. Del resto, la natura di Miyazaki è sempre stata personificata o animalizzata, e la divinità animale (che l’adattamento italiano del più recente e a nostro giudizio nocivo doppiaggio curato da Gualtiero Cannarsi ha chiamato Dio Bestia, giusto per fare un esempio…) di Principessa Mononoke (1997) ne è la più lampante manifestazione. Ma in Si alza il vento non vi è un’esplicitazione di questa visione quasi mitica della natura: è ben più sottile. Ad esempio, il grande terremoto del Kantō (verificatosi nel 1923) è rappresentato come una forza infernale dai movimenti irrealistici e quasi caricaturali, vicini a quelli degli incubi visionari de La città incantata (2001), con la costanza di un rumore che sembra umano, a metà tra un attacco di tosse e un rutto. E in molti momenti successivi, il soffiare del vento diventa davvero un respiro divino, un personaggio onnipresente che, in alcuni momenti, sembra quasi essere una manifestazione degli istinti dei personaggi che abitano il film.
Il film, poi, è in pratica una poesia onirica che mischia la vera storia di Jirō Horikoshi con il romanzo Si alza il vento pubblicato nel 1936 da Tatsuo Hori: dal primo prende la storia dell’ingegneria aeronautica in Giappone, compresi personaggi e scenari tedeschi che visivamente rimandano all’Espressionismo (e un personaggio che, nella versione inglese del film, è stato doppiato da Werner Herzog), dal secondo la malattia (la tubercolosi, come la madre del regista) e la componente romantica. Jirō, che sognava di diventare pilota nonostante un difetto di vista che glielo impediva, almeno secondo la versione di Miyazaki, ispirato dalle prodezze dell’ingegnere italiano Caproni, è diventato un progettista aeronautico dotatissimo, lontano dalle faccende belliche in maniera quasi ingenua (un po’ come alcuni personaggi dei film fantascientifici di Miyazaki); ha inventato gli aeroplani Zero, utilizzati poi da miriadi di kamikaze. Il suo sogno, il sogno del volo, è precipitato ed è affondato nella melma della guerra: è l’ennesimo sogno distrutto nella visione cinematografica, ma non è il sogno utopico, bensì è il sogno infantile, quello che si attua nel momento in cui il personaggio-individuo prova a vivere. E il tentativo di vivere è quello che si dimostra nella storia d’amore, una delle più strappalacrime che si ricordino, che nasce e prosegue con una magia, un rispetto ed una dialettica ormai datati, dopo tanto cinema romantico. È come se ci fosse un linguaggio dell’amore sincerissimo ma nel contempo poco realistico rispetto a come ci siamo abituati. Ma tutto ciò scompare quando scompare il sogno, e gli aerei che avrebbero dovuto andare sempre più verso l’alto, sempre più verso l’utopia, finiscono per essere vittime del suicidio collettivo dei kamikaze. L’amata malata di Horikoshi finisce per essere l’incarnazione dell’amore, e l’amore del resto potrebbe andare a braccetto con il sogno come due cose che fanno in modo che valga la pena, quindi, provare a vivere. L’animazione, del resto, è il mezzo che il cinema può usare meglio per mostrare e mostrificare il sogno, perché non ha limiti, e Si alza il vento potrebbe essere il film più bello e intenso di Miyazaki, anche solo per il fatto che l’autore abbia deciso di concludere la propria filmografia di capolavori con un capolavoro così personale, che mostra come tutte le sue delusioni e ossessioni possano essere effimere, ma che lui comunque ha continuato a sognare. Il volo, il cinema, l’amore gli hanno ricordato che, in fondo, valeva la pena vivere, valeva la pena continuare, valeva la pena creare quel marchingegno pulsante e umano che è il suo cinema, valeva la pena volare alti, mossi dal vento come aerei perfetti, riempiendo di lacrime i volti dei fan più accaniti, umani e appassionati.
Nicola Settis