«Anziché suicidarsi, la gente va a lavorare»
Thomas Bernhard
Racchiude in diciannove magnetici minuti la stessa profonda amarezza del doloroso Ja di Thomas Bernhard, il Sì di Luca Ferri. Non un adattamento del romanzo dello scrittore austriaco, anzi nulla di più diverso per forma e per narrazione, ma un’ispirata evocazione della stessa musa di sofferenze interiori e inclinazioni suicide. Dopo la solitudine e i feticismi della Trilogia dell’Appartamento, e forse complici i luttuosi mesi che hanno falcidiato Bergamo con l’impatto devastante del Covid19 e/o il gesto assurdo post-lockdown di Bianca Dolce Miele protagonista transgender de La casa dell’amore che proprio in quella casa – o meglio, nell’appartamento accanto – ha inaspettatamente ucciso un vicino, per il regista orobico è tempo di inaugurare un nuovo ciclo, questa volta composto da cinque lavori, incentrato sull’assenza. Un’assenza – «scrivi una volta, cancella due volte» – che è quella fisica di chi non c’è più, ma è anche quella esistenziale di chi non riesce più a trovare il minimo barlume di speranza. Un’assenza che è quella di chi ha deciso di andarsene, ma è anche quella di chi rimane. Un’assenza che riaffiora nei ricordi, nel ripresentarsi dei traumi infantili, nelle mancanze di ogni giorno. Un’assenza che è senso di vuoto, memoria da (ri)elaborare fra le rovine umane di sorridenti spot pubblicitari, depressione che si incarna in incubo, patimento che amoreggia con la morte. Un’assenza che sta nella natura effimera e di per sé già mortifera della parola, del suono e delle immagini.
Non certo a caso quelle parole strettamente legate a un episodio di suicidio che fu shock del regista da bambino, non certo a caso quei loop funebri, minimali e ipnotici, di cui si compongono le musiche di Dario Agazzi, e non certo a caso quei video rigorosamente tratti dagli Ephemeral films conservati in 8mm, 16mm e Beta ai Prelinger Archives, che dal 1982 raccolgono e preservano quei film didattici e caserecci, spesso amatoriali, destinati altrimenti per primi a scomparire nell’oblio. Tre elementi di morte, che Luca Ferri presenta quasi come fossero un’installazione a tre canali linguistici, due schermi affiancati in split screen per leggere il monologo e per guardare l’archivio, più una fonte sonora con cui ascoltare gli assoluti silenzi e il ripetersi progressivo e lancinante delle note di Agazzi. In mezzo, il passaggio da un illusorio mondo ormai de-umanizzato, in cui l’universo e la natura si (ri)formano e continuano la loro vita ma l’uomo sembra un fantasma rimasto solo nei ruderi di ciò che ha costruito, al ritorno improvviso di una realtà ossessiva in cui l’umanità è di nuovo presente, e con lei tutta la devastazione interiore di cui è capace.
È l’inizio dell’incubo, per l’anonimo protagonista catturato dalla televisione e restituito direttamente ai più oscuri anfratti della sua sfera onirica, dal miracolo della nascita di un pulcino all’orrore della caccia all’orso, dalla vita di un fiore all’uccisione trionfale di un animale, dalla pazienza del ragno e al sangue sulla neve, dalla laboriosità costruttiva delle api a quella distruttiva dei bracconieri, dalle piume con cui volare verso la libertà alla pelliccia scuoiata ed esposta come un trofeo. Fotogrammi di morte che si fermano e si tatuano nella memoria, mentre le parole continuano a scorrere ineluttabili e tormentate come nella (non) lettera d’addio di chi si sente al contempo l’orso e il cacciatore, la vittima e il carnefice, il braccato e il segugio, chi muore e chi uccide. Senza più speranza, senza più alcuna possibilità di riscatto. Ma non si pensi alla spietatezza entomologica di un Haneke o ancor peggio all’aperto sadismo di un Seidl o di un film a caso della Nuova Onda greca contemporanea. Esattamente all’opposto, anzi, è proprio in questo pessimismo depresso e dolorosissimo che emerge ancora una volta quella stessa umanità, ben più profonda dei tentativi di dissimularla, che già ha portato “il regista su Excel” Ferri a perdere per la prima volta il controllo sui suoi perfetti congegni cinematografici e affezionarsi sinceramente a Pierino. In Sì, presentato fuori concorso fra i corti di Orizzonti a Venezia77, c’è tutta la sua personale mancanza, c’è il suo concetto di assenza, c’è tutta la sua personale metabolizzazione di un lutto. C’è il suo ricordo ancora commosso di un affetto di cui tentare di capire e perdonare il gesto più estremo, scrivendo di proprio pugno quel biglietto d’addio mai lasciato e mai trovato, ma «rimasto nella mente» di chi era definitivamente «stanco» e in qualche modo realmente sentito, più ancora che immaginato, da chi è rimasto. E poi c’è la sua abilità teorica nel declinare e riplasmare differenti idee e forme di cinema, c’è la sua costante e sempre differente sperimentazione linguistica, c’è la sua capacità di rendere anche uno split screen, quasi per definizione sovrabbondante, non solo parte ma probabilmente apogeo del suo rigoroso processo di sottrazione.
Tutto diventa struggente e poetico, in Sì, tutto diventa minimale e pregno di significati. Le cellule e l’energia, gli animali e le piramidi, lo svuotarsi del frigo e i templi maya, il ritrovarsi all’improvviso addormentati e il brutto sogno. Immagini in qualche modo sopravvissute per ipnotizzare con la musica e con le parole, con la riflessione su come il tempo e il mondo siano cambiati negli anni proprio come le gestioni dei negozi, su come «dopo l’incidente in bici» la vita avesse smesso di avere senso fra la perdita del gusto e lo sfumare della memoria, su come la stanchezza, al momento dell’ultimo atto e dell’ultimo Sì, avesse ormai preso il sopravvento persino sull’angoscia. Eppure non rimane solo il vuoto, non rimane solo l’assenza dopo il suicidio, non rimane solo l’involucro senza più contenuto. Rimane anche – o forse soprattutto – un qualcosa di molto più grande, forte e duraturo, come il sentimento, come la sensibilità, come l’emozione. Un qualcosa di inalienabile e sempre più ineludibile, anche nel cinema programmaticamente glaciale e calcolato di Luca Ferri. Del resto il cinema nemmeno può esistere, se non lo pensa e non lo realizza un (grande) essere umano.
Marco Romagna