SHOWING UP (2022), di Kelly Reichardt
All’indiscutibile talento di Kelly Reichardt questa Cannes 2022 ha già avuto modo di tributare il giusto plauso nei giorni scorsi, con la consegna del Premio alla Carriera della Quinzaine des Réalisateurs in occasione della proiezione celebrativa del suo sempre magnifico Meek’s Cutoff (2010). Una Carrosse d’Or del tutto meritata, per come l’autrice statunitense ha saputo accrescere il mezzo cinematografico con il suo sguardo minimalista ma non minimale che getta una nuova luce sul genere, di fatto tornando alla radice dell’azione ridotta al suo nocciolo in una totale antispettacolarità che diventa il vero spettacolo. Una visione confermata anche dal suo ultimo film presentato nella Selezione Ufficiale del Concorso, ennesimo manifesto di una voce che canta le attese e le piccole cose del quotidiano che spesso schiudono verità più grandi, come in questo caso il colonialismo, la necessità di sopraffazione umana e la resilienza come unica risorsa di fronte alle incertezze. Bisogna però riconoscere, a malincuore, come il pur buono Showing Up non sia all’altezza delle aspettative che ormai stavano montando dai tempi del dolcissimo First Cow (2019), sua penultima opera basata sul romanzo The Half Life di Johnatan Raymond, co-sceneggiatore, che raccontava la storia di un’amicizia tra due squattrinati e una vacca da latte. Qui, rimessa per ora da parte la destrutturazione del western per tornare alla provincia contemporanea, la storia è invece quella di Lizzy, una scultrice solitudinaria e un po’ scorbutica interpretata da Michelle Williams, che ancora dà prova della sua assoluta sinergia creativa con la regista americana (di cui siamo al quarto esempio), anche se in questo caso la solitamente impeccabile interpretazione dell’attrice può risultare a tratti leggermente macchiettistica e scontata. Il personaggio è costruito in maniera facile, la timidezza e la frustrazione rese in maniera didascalica in una postura fisica ingobbita, nella camminata sciabattata e trascinata, nel broncio quasi perenne e nella direzione dei piedi tesa verso l’interno. Un’introversione da manuale, che sicuramente Michelle Williams riesce a rendere adorabile, ma che non le permette forse di spiccare rispetto a tutte le altre collaborazioni con Reichardt, in primis Wendy e Lucy del quale, a ben vedere, Showing Up vorrebbe essere una sorta di rifacimento con un piccione al posto del cane, ma con una portata emotiva del tutto silenziata rispetto al capolavoro del 2008 che lo rende di fatto un film interessante ma in sordina, forse per una questione più di trama che stilistica, o forse solo perché – banalmente – meno ispirato e ‘sentito’ dei precedenti.
Nel suo racconto della settimana prima di una esposizione di nicchia di alcune sculture, Kelly Reichardt scivola infatti inspiegabilmente in paradossali ingenuità narrative che stemperano la portata invece potenzialmente grande dell’opera, oltretutto data alla vita con quella regia inconfondibile che non si può non amare e che, nonostante tutto, rimane il vero asso vincente di Showing Up. Uno sguardo che permette all’animo della protagonista di emergere con sincerità dai dettagli che lo raccontano: le scarpe da lavoro, i monologhi-dialoghi con il gatto, la camicia da notte, i croccantini, i disegni appesi al muro, le mani che modellano con attenzione, la pasta fredda mangiata direttamente dal tupperware, gli sguardi gelosi. Un personaggio a cui è facile accostarsi per il semplice fatto che riesce a parlare a tutti. A tutti coloro che hanno vissuto complessi di inferiorità ma anche presunzioni, che si sono sentiti frustrati dal quotidiano, che hanno visto i propri sogni vacillare, che hanno combattuto silenziosamente e a testa bassa per gli stessi, che hanno deglutito qualche umiliazione e taciuto di fronte alle noie familiari, o ancora che si sono rifugiati nell’arte e che hanno invidiato quella di chi ha più successo. Come quella di Abigail, l’affittuaria e collega di Lizzy che rappresenta in qualche modo la summa delle insoddisfazioni di lei perché è più nota, perché esporrà prima di lei e in una galleria più importante, ma soprattutto perché è felice. Ed è gentile. E l’unica cosa più insopportabile di chi è più felice di noi è chi è gentile, perché è felice. Abigail e Lizzy sono allora una il negativo dell’altra: vivono in case adiacenti, ma quella di Abigail funziona meglio mentre Lizzy continua a non avere l’acqua calda e oltretutto non ne è la padrona, svolgono lo stesso lavoro ma quello di Abigail è più riconosciuto, entrambe allestiscono la mostra ma Abigail ha un intero team ad aiutarla invece di farlo da sola, Abigail lavora materiali moderni che sono manufatti pre esistenti che reinventa in una nuova funzione di oggetto e in qualche modo rappresenta l’arte contemporanea e un po’ pretenziosa, mentre la protagonista rappresenta la tradizione e la semplicità nel suo maneggiare solamente la creta e i colori, limitandosi alle figure umane.
Il rapporto tra le due – che non manca di momenti di sottilissima ironia – fa da tappeto narrativo a tutto il film, soprattutto da quando la loro specularità diventa evidente nel rapporto con il piccione, in realtà il vero punto debole dell’opera. Ferito dal gatto di Lizzy e gettato dalla stessa fuori dalla finestra perché vada a «morire da qualche altra parte», sporco e con l’ala rotta viene trovato da Abigail e ovviamente preso in cura da lei, per diventare presto “figlio adottivo” di entrambe ma soprattutto della scultrice, che superato il disgusto e il rifiuto, inizialmente per dimostrare di essere all’altezza della nemica-amica, si prende cura di lui e – come è ovvio che succeda – questo la porta ad affezionarsi e a riscoprire gli istinti umani reconditi in lei. Ben presto si intuisce come questo animale, già di per sé reietto della società e ora in aggiunta ferito e azzoppato, corrisponda a lei per ovvi motivi. Ma ancora prima si intuisce dove andrà a parare la regista, tanto che probabilmente anche lo spettatore meno allenato potrebbe sottoscrivere che nel finale il piccione volerà via libero, lasciando quel sapore dolceamaro in chi lo osserva rinascere mentre rinasce a sua volta, proprio grazie al rapporto col pennuto. Ciò che si stenta a credere è che veramente un’icona del calibro di Kelly Reichardt si sia sostanzialmente incartata in una metafora a grana così grossa e in definitiva un po’ insipida, aggravata dal fatto che il momento della (doppia) liberazione non solo accada proprio durante la mostra, ma che venga reso possibile grazie a due bambine che tolgono le fasce che tarpavano letteralmente le ali al piccione: mani innocenti che liberano ali colombesche. Il tutto durante un momento forzatamente pesante come l’exploit di dinamiche familiari caricate sin da metà film e che raggiungono l’apice quando il fratello di Lizzy, affetto da manie di persecuzione, si presenta all’esposizione insieme ai genitori divorziati. Poco prima si era visto mentre scavava una buca nel suo giardino, che per qualche istante aveva fatto temere ben più tragici epiloghi. Niente di scabroso accade invece nel finale, che vede le due nemiche amiche mentre dopo il volo dell’animale camminano e si allontanano di spalle con una camera che le segue dall’alto, mentre forti del loro rapporto ritrovato e pronte a nuove avventure riecheggiano «I believe this is the beginning of a beautiful friendship» di Casablanca, senza che però il pubblico sia stato mai realmente interessato delle loro sorti e della loro amicizia.
Insomma, per quelle che sono la sensibilità e la stoffa di Kelly Reichardt risulta un lavoro inspiegabilmente raffazzonato e manualistico, quello di Showing Up, il che non può non stupire vista la capacità emotiva di un’artista che generalmente regala film che sono spremuti direttamente dal cuore. Questo è molto più freddo, distaccato, e ha forse come unico spunto davvero valido quello di una riflessione sull’arte che si comprende solo guardando attentamente le statuine esposte nel finale, quelle a cui la protagonista ha lavorato in tutto l’arco della settimana. Si capisce come queste rappresentino tutti i personaggi che abitano la sua quotidianità mediocre, dai colleghi della scuola, agli studenti, ai familiari e infine anche a se stessa, non a caso l’unica statuina che viene bruciata per sbaglio nel forno (con, anche qui, una metafora piuttosto telefonata). Ed ecco che allora è possibile leggere nel film qualcosa di finalmente di pregio, da quando mostra come il grigiore della vita e anche il dolore possano essere trasformati in qualcosa di bello tramite l’arte. Se le giornate risultano ingrate a Lizzy, questo suo malessere è motore per qualcosa di più grande e diventa un regalo per il fruitore. Un aspetto finalmente di dolcezza nell’ambito di un film per il resto fatto un po’ con il pilota automatico. Comunque sia, un piccolo giro a vuoto (o per lo meno con minore ispirazione) si concede a chiunque, e la nostra adorata, amatissima e stimatissima Kelly Reichardt tornerà sicuramente ad essere quella di sempre e a migliorare le nostre giornate con le sue solite perle di meraviglia. Il vero problema, sempre ammesso che possa essere considerato realmente un “problema”, è che forse ci aveva abituati troppo bene.
Bianca Montanaro