«I gatti sono mortali. Ma anche Socrate è mortale. Dunque, Socrate è un gatto».
Eugène Ionesco, Rhinocéros – Il rinoceronte
«Hai paura? Vuol dire che sei sveglio, vuol dire che sei vivo». Anche se non è ancora dato di sapere in quale forma: essere umano o forse (già) rinoceronte, in un’epidemia che dal primo sparuto esemplare sembra attecchire sempre più, trasformando gradualmente tutti gli uomini in bestie feroci a partire da un prurito irrefrenabile, dal fascino e dalla banalità del Male, dalla mancanza della forza di volontà per rifiutarlo. Una metamorfosi simbolica e smaccatamente teatrale, ma non per questo meno inarrestabile, pericolosa e devastante, da compiersi attraverso un corno volontariamente installato al centro della fronte con un turbante che Amos Gitai riprende direttamente dal Rhinocéros scritto nel 1959 da Eugène Ionesco come metafora dal sapore orwelliano dell’accettazione passiva e codarda, quando non proprio entusiasta, del totalitarismo e del conformismo, della limitazione delle libertà e dell’orrore quotidiano perpetrato dal Potere dei governi. Una rivisitazione di uno fra i principali capolavori del teatro dell’assurdo che l’autore israeliano, da tutta la carriera e passando per un lungo periodo di esilio fra le principali voci critiche interne riguardo le politiche dello Stato sionista, non si limita ad adattare per lo schermo mettendo in scena il testo originale, ma riscrive quasi integralmente, mantenendone solo il senso generale, il falso sillogismo che rende inutile anche la filosofia, l’immagine allegorica del rinoceronte e la scansione in tre atti, per traslarla nella contemporaneità della Be’er Sheva di oggi, in un singolo gigantesco edificio multiuso, lo Shikun che dà il titolo al film, nel quale si intersecano le traiettorie di una ventina di diversi personaggi di ogni lingua, nazionalità e strato sociale. Dalla sorpresa per la violenza del mondo ai primi avvistamenti di qualche ungulato, dallo smascheramento delle metamorfosi invisibili alla necessità di continuare a opporsi e a lottare senza mai arrendersi, anche a costo di rimanere gli ultimi esseri umani su una Terra di soli rinoceronti. Un’opera in tre atti linguisticamente e stilisticamente opposti, introdotti da un brevissimo prologo monologato dal personaggio di Irène Jacob che in qualche modo ricalcherà il Berenger della pièce di Inoesco tenendo insieme le fila di un racconto fatto di mille frammenti di altri racconti, che Gitai mette in scena fra un articolatissimo pianosequenza di quasi mezz’ora in cui far alternare tutti i protagonisti innestando nei loro pezzi di dialogo lo stato delle cose, e il montaggio di dettagli e punti di vista sempre di poco oscuri e spostati quando la rinocerontite inizia a diffondersi a macchia d’olio, tanto silenziosa da strisciare in monopattino senza nemmeno il rumore di un passo. Un po’ come se il primo atto fosse uno sguardo sui vari possibili aspetti di un terreno ormai fertile per far germogliare la metamorfosi e il secondo fosse il lavoro del virus nel propagarsi sempre più veloce e incontrollabile, in attesa del ritorno al pianosequenza del breve e conclusivo terzo che segna il rifiuto della protagonista ad arrendersi, e quindi la nascita della Resistenza. Il risultato è un film bellissimo e misterioso, un lavoro al contempo politico e filosofico, lucidissimo ed allegorico, perfettamente letterario e perfettamente teatrale, e non certo in ultimo perfettamente consapevole delle possibilità del cinema, dei differenti linguaggi con cui raccontarlo, organizzarlo e di volta in volta tradurlo, e di come la forma sia già intrinsecamente contenuto.
Basta un lungo corridoio ad Amos Gitai per introdurre il caos perfettamente organizzato, quasi una coreografia, di Shikun, presentato alla 74ma Berlinale nel fuori concorso deluxe di Berlinale Special. Una fila di porte che si aprono e che si chiudono, inseguendo senza stacchi ora un personaggio e ora l’altro nei loro continui incontri che si intersecano lungo il porticato. C’è chi cerca di trovare un ordine interrogandosi su quel che vede e chi invece si interessa solo della prossima speculazione edilizia fra torri e sinagoghe, c’è chi è rimasto traumatizzato dalla guerra e ormai anziano non fa altro che raccontarla e c’è chi invece si rende conto dei cambiamenti in atto e già si preoccupa per il futuro, c’è chi si è appena trasferito in Israele dall’India, dall’Ungheria o dalla Russia e chi invece è sfollato dall’Ucraina, c’è chi insegna la lingua agli stranieri di ogni età e c’è chi invece torna sui banchi per impararla. Ci sono normali famiglie che vanno e che vengono, ci sono poveri e uomini di potere, e ci sono parole, contesti e canzoni in cui, in una babele di ebraico, yiddish, francese, inglese e ucraino, trovare assaggi e sfumature di un mondo che non cerca la pace e la pacifica convivenza, ma solo soldi, campanilismi e vittorie, prevericazioni dell’uno sull’altro, frasi imboccate dall’alto e imparate a memoria per farsi benvolere, e nel frattempo silenziosa cecità sulle proprie contraddizioni. E poi ci sono quei primi rinoceronti che, nella loro corsa, travolgono e distruggono tutto ciò che si trova sul loro percorso, prima lontani da qualche parte nella notte del deserto nel Negev, e poi sempre più vicini e numerosi fino a diventare la maggioranza, o forse tutti, senza più preoccupazioni per i destini del mondo (e per la questione palestinese, non nominata esplicitamente e forse non ancora così pressante in un film pensato e realizzato prima del 7 ottobre 2023 e della sanguinosa rappresaglia che ne è seguita, ma che aleggia come uno spettro in ogni ombra e in ogni più o meno velato riferimento all’idea stessa di governo autoritario), senza più discernimento, senza più fastidio, senza più vergogna. Senza più rispetto nemmeno per gli amici mai tornati da Auschwitz. Senza più memoria né umanità, spazzata via dalle deduzioni errate, dalla superficialità, dalla pigrizia, dall’egoismo, dalla ben precisa scelta di rinnegare la propria intera esistenza per adagiarsi sulla strada più comoda e populista di un leader da supportare e seguire anche in ogni ingiustizia e in ogni crimine. Del resto «un regime ha bisogno di rinoceronti», mossi solo dall’istinto e dalla paura, incapaci di discernere la verità e la menzogna, pronti in qualsiasi momento a tradire le opinioni annotate da decenni sui propri stessi diari, e a scendere nottetempo verso le botteghe e le officine che affollano i bassi dello smisurato palazzo, fra i muletti che continuano a girare e la rimessa in cui dormono gli autobus, fra i lavoratori più invisibili e frustrati e gli innamorati che corrono intorno alle colonne e poi si baciano appassionati, per forgiare e indossare il proprio corno. Un vero e proprio rituale infernale, nell’indecisione di chi è rimasto umano fra chi sostiene il diritto di vivere delle bestie «purché non ci facciano del male» e chi invece ha capito che non può esistere possibilità di dialogo ma solo di combatterle prima di diventare una di loro, che Gitai innerva delle musiche incalzanti di Alexei Kochetkov e Louis Sclavis, e in cui ciascun atto ha un suo specifico linguaggio filmico fra il longtake à la Ana Arabia con cui affrescare a volo d’angelo le contraddizioni di Israele e i ripetuti stacchi in controluce già di Laila in Haifa nei quali tutti diventano inesorabilmente animali. Non resterà che piangere, gridare, impazzire, denudarsi dalla disperazione, rendendosi conto che non è rimasto nessun altro, e che diventare un rinoceronte sarebbe la strada più breve, forse l’unica, per mettere fine ai propri dolori. Eppure non si deve cedere, non si può cedere, non si vuole cedere. Se non altro per rispetto di chi, alla resa, ha preferito fino alla fine la dignità della morte.
Marco Romagna