Tra le scelte più cinematograficamente identitarie – o se vogliamo, nell’accezione più positiva del termine, conservatrici – che hanno caratterizzato la direzione di Steve Della Casa al Torino Film Festival, spicca sicuramente la proposizione della rassegna “Mezzogiorno di fuoco” dedicata al western d’antan. Se però, nell’edizione n. 40 della kermesse sabauda (2022), la scelta si era concretizzata in una selezione di opere poco note al grande pubblico, andando volutamente a escludere gli interpreti più celebri e celebrati del genere, sia sul fronte attoriale che su quello autoriale, l’edizione n. 41, invece, nel confermare la rassegna, ha cambiato diametralmente direzione, virando sui grandi nomi e in particolare dedicando l’intera sezione a John Wayne. Tra i sette film selezionati per il “Mezzogiorno di fuoco” 2023 solo un regista è presente due volte, e non poteva che essere John Ford, l’autore che con Wayne ha stretto il sodalizio più significativo (della carriera dell’uno e dell’altro). Un minimo di continuità rispetto ai criteri del 2022 si è avuto escludendo i titoli più conosciuti della coppia, visto che sono state scelte due opere sicuramente secondarie: tale è, nella filmografia fordiana costellata di classici intramontabili, I cavalieri del Nord Ovest (She Wore a Yellow Ribbon), opera mediana della trilogia della cavalleria, che segue Il massacro di Fort Apache (Fort Apache, 1948) e precede Rio Bravo (in originale Rio Grande, 1950). Ambientato nel 1876, subito dopo la sconfitta del generale Custer a Little Bighorn, che aveva ispirato il precedente Fort Apache, I cavalieri del Nord Ovest racconta le vicende del capitano di cavalleria Nathan Brittles (Wayne), incaricato dal suo superiore, maggiore Allshard (George O’Brien), di tenere a freno gli attacchi degli indiani (e in particolare dei Cheyenne) che si sono alleati per promuovere un’offensiva contro i bianchi che hanno invaso le loro terre. Al contempo Brittles dovrà accompagnare la moglie e la nipote del maggiore alla vicina stazione della diligenza, affinché si allontanino da quei territori del tutto inappropriati per le donne, ancor di più durante il rigido inverno del Nord Ovest. La presenza femminile in quei luoghi è poco più che il pretesto per introdurre l’onnipresente (nel cinema classico) subplot sentimentale: Olivia, la nipote del maggiore, si contende, non senza una certa malizia, l’amore di due spasimanti, il tenente Cornill (John Agar) e il sottotenente Bennett (Harry Carey Jr.). Alla partenza, la ragazza si è legata ai capelli un nastro giallo (quello che dà il titolo alla pellicola, prendendo spunto dal verso dell’omonima ballata popolare riadattata per il film), simbolo di un legame sentimentale in realtà del tutto ambiguo («Round her neck she wore a yellow ribbon / She wore it in the winter and the merry month of May / When I asked her, “Why the yellow ribbon?” / She said, “It’s for my lover who is in the Cavalry”»). Ma a essere centrale è ancora una volta il tema della lotta tra bianchi e nativi, questi ultimi rappresentati nuovamente nella loro veste di nemico distante e temibile, dopo che Fort Apache – che pur restava un’opera classica da questo punto di vista – aveva introdotto alcune piccole aperture alle ragioni degli indiani, presentandoli come vittime degli inganni dell’uomo bianco.
She Wore a Yellow Ribbon è un western atipico sotto diversi aspetti, a partire dal fatto che è incentrato su un protagonista che si trova nella fase finale della propria carriera (Brittles/Wayne è a pochi giorni dal congedo, dopo il quale intende trasferirsi in California). Un protagonista di cui viene proposta un’immagine per certi versi lontana da quella classica dell’eroe fordiano, tutto d’un pezzo, imperturbabile, che non si lascia andare a slanci ameni. Si registrano infatti ampi sprazzi di un umorismo spesso efficace, il cui merito è da ascrivere principalmente alla penna di Frank S. Nugent, già critico cinematografico e divenuto, a partire da Fort Apache, sceneggiatore di undici film di John Ford, tra cui anche Sentieri selvaggi. Lo stile di Nugent è piuttosto diverso se confrontato con quello dell’altro collaboratore fordiano particolarmente attivo sul fronte delle sceneggiature (soprattutto negli anni Trenta), vale a dire Dudley Nichols (autore, tra gli altri, dello script di Ombre rosse). In particolare, Nichols aveva un’impostazione fatalista e tenebrosa (si veda un titolo su tutti: La croce di fuoco) che Nugent manterrà soltanto in pochi frangenti, optando per un contesto generalmente più leggero, meno teso, di quelli che avevano i film di Ford girati fino al 1947 (l’anno del funereo The Fugitive, appunto). Una contrapposizione, quella tra Nichols e Nugent, che è stata proposta dalla critica anglo-americana (Andrew Sarris, Lindsay Anderson), ma che va presa con i dovuti distinguo, se si considera che Nichols aveva scritto per Ford anche alcune commedie piuttosto leggere (si pensi a Il giudice) e alcuni dei momenti ironici più memorabili del cinema di Ford (le scene con il dottore in Ombre rosse). Basterebbe poi pensare al tragico finale di Fort Apache (primo film sceneggiato da Nugent, come si diceva), per ascrivere una certa verve drammatica e nefasta anche a quest’ultimo. Di sicuro in She Wore a Yellow Ribbon l’epilogo prende un’altra strada e lo scontro campale viene evitato, più che cercato, come era avvenuto invece in Fort Apache da parte dell’ostinatamente ottuso colonnello Turner (interpretato, splendidamente, da Henry Fonda). Inoltre, va detto che assegnare questa importanza agli sceneggiatori che lavorarono per Ford, tanto da attribuire a loro l’umore generale del film, contrasterebbe almeno in parte con il riconosciuto e ormai ampiamente consolidato ruolo di autore attribuito al regista di Cape Elizabeth.
È però innegabile la svolta che si registra con il John Ford della trilogia della cavalleria, quanto meno se si confronta quest’ultima ai film immediatamente precedenti (I sacrificati, Sfida infernale, La croce di fuoco), su cui aleggiava – va riconosciuto – anche il trauma della Seconda guerra mondiale appena terminata. Emblematico di questa variazione del contesto e del paesaggio umano fordiano è il ruolo affidato ad alcuni interpreti, in particolare a quel grande caratterista (ma non solo) di Victor McLaglen. L’attore inglese era stato protagonista di due film di Ford scritti da Nichols, entrambi particolarmente lugubri e drammatici: La pattuglia sperduta (1934) e Il traditore (1935). Nella “gestione Nugent” McLaglen verrà invece riadattato a un ruolo praticamente da commediante, quello del sottufficiale goffo e beone (dunque un ruolo analogo a quello di The Lost Patrol, ma con spirito del tutto differente) che comparirà nell’intera trilogia della cavalleria (anche se con nomi diversi: in She Wore a Yellow Ribbon è il sergente Quincannon). McLaglen riapparirà poi in un altro ruolo del tutto anomalo e scanzonato in Un uomo tranquillo (dove è di fatto coprotagonista insieme a Wayne), altra memorabile sceneggiatura di Nugent.
Se dunque, volendo tentare una sintesi, Il massacro di Fort Apache può considerarsi un’opera di transizione tra il “vecchio” e il “nuovo” John Ford (non a caso è l’unico film del regista in cui appaiono entrambi i suoi attori feticcio, quell’Henry Fonda che fu protagonista fordiano soprattutto nel periodo 1939-1948, e quel John Wayne che, dopo il folgorante esordio con Ford in Ombre rosse – prima aveva avuto soltanto parti non accreditate – tornerà stabilmente con il suo regista prediletto proprio soltanto con la trilogia della cavalleria), dall’altro lato, She Wore a Yellow Ribbon è invece il film in cui quella svolta è più evidente e compiuta, rappresentando un significativo preludio di quello che sarà il John Ford spesso irriverente degli ultimi vent’anni di carriera.
Da un punto di vista tecnico-stilistico I cavalieri del Nord Ovest si ricorda per la vistosa fotografia di Winton Hoch, che tornerà a collaborare con Ford diverse altre volte, fino a raggiungere la propria maturità artistica, probabilmente, con Sentieri selvaggi (e bastano i primi minuti di She Wore a Yellow Ribbon per capire come Hoch stesse già facendo – inconsapevolmente – le prove generali per The Searchers). Una fotografia che, a differenza degli altri due film della trilogia, vira sul colore, forse inevitabilmente visto il titolo originale. Una fotografia che esalta i paesaggi maestosi della Monument Valley (poco importa che il film sia invece ambientato nel Nord Ovest), con le butte e le mesa che si stagliano verso il cielo andando a riempire i campi lunghi delle canoniche composizioni fordiane in cui la linea dell’orizzonte si trova poco sopra la parte bassa dello schermo. Quella che nei primi western di John Ford (e anche in Ombre rosse) era principalmente un’esigenza produttiva (girare campi lunghi e lunghissimi per utilizzare le controfigure – anziché gli attori principali – nelle scene ambientate nella Monument Valley, affidandole alle seconde unità), con la trilogia della cavalleria diventerà un marchio di fabbrica del Ford regista di western, con l’utilizzo via via più ridotto di fondali proiettati. Per il resto è il solito Ford della “regia invisibile”, quella regia così naturale, eppure così complicata nella sua naturalezza. Diceva Oscar Wilde che «La spontaneità è una posa difficilissima da tenere»: una frase che si adatta perfettamente allo stile di Ford. Una dote che spesso si tende a dare troppo per scontata.
Vincenzo Chieppa