SHARING (2014), di Makoto Shinozaki
Nel Giappone schiacciato dal governo destrorso e intollerante del primo ministro Shinzo Abe, non è certo semplice fare ancora film politici. Non è certo semplice andare contro quel consenso sociale forzato e quell’immagine di felicità e prosperità che deve uscire ad ogni costo. Non è certo semplice parlare di lutti, difficoltà, dolore, ponendosi come voce contro, come coscienza critica, come necessario -quanto sgradito da chi detiene il potere- momento di riflessione. Era l’11 marzo 2011, quando a Tohoku lo tsunami si abbatteva sulle coste nipponiche provocando il disastro nucleare di Fukushima. Un evento che ha necessariamente cambiato il cinema d’autore del Sol Levante, dal Sion Sono di The Land of Hope e The Whispering Star fino al Koji Fukada di Sayonara, passando – per quanto il film parli di tutt’altro – per la giovane Momoko Ando con il suo splendido fiume narrativo 0,5mm. Anche Makoto Shinozaki, con il suo Sharing presentato con quasi due anni di ritardo all’International Film Festival Rotterdam 2016, si accoda al nugolo di ‘ribelli’, mettendo in scena un dramma psicologico dalle venature noir che si concentra su quanto possa essere difficile l’elaborazione del lutto. L’assioma dal quale si dipana Sharing è in realtà molto semplice: condividere i propri dolori con altre persone può aiutare a superarli. Ma il film non finisce certo qui, finendo per interrogarsi intelligentemente e con un’eleganza prettamente nipponica su premonizioni, false memorie, il tema del doppio, il trauma, l’immaginazione come arma e il sottile confine fra sogno e realtà.
La vicenda si svolge in una scuola nella quale Eiko, insegnante di psicologia, ha perso il proprio fidanzato nello tsunami. Ma ancora lo vede vagare per i corridoi, una presenza ectoplasmica, cortocircuito fra memoria, dolore e una speranza che non morirà mai, nonostante tutto. Kaoru, una sua studentessa, sta lavorando a uno spettacolo teatrale sulle reazioni allo tsunami, fra incubi ricorrenti, premonizioni e incompatibilità con gli altri attori troppo freddi. La differenza fra coscienza e subconscio diviene sempre più labile, la percezione diventa ricordo e forse futuro. Da un esperimento attraverso il quale una studentessa guarda spazzole al lavoro fino a sentirle, per quanto non ci siano, in azione sulla propria mano, passando per quella copia de Il Doppio di Dostoevskij presente in biblioteca, fino a sognare l’arrivo delle onde ogni singola notte, Sharing mette in scena il dolore e l’autosuggestione, il metodo Stanilavskij che assurge a ipnosi, la morte che si impossessa delle menti dei vivi e ne condiziona percezioni, ricordi, spirito. Makoto Shinozaki gioca con la fotografia leggermente sovraesposta e con i fuochi, portando sullo schermo tutta la fallibilità dei sensi umani e tutta l’indefinitezza che sta intorno a noi, fino a quando il subconscio non prende definitivamente il sopravvento: ecco quindi quell’ellissi temporale che riporta Eiko al 10 marzo 2011, il falso ricordo della sua premonizione, la sua disperata richiesta al fidanzato di non andare il giorno dopo alla conferenza a Tohoku nella quale troverà la morte. Modificare il tempo e i ricordi per elaborare il lutto, quel sogno postumo di salvarlo: nello sguardo lacrimoso di Eiko c’è tutto il dolore represso di una nazione, c’è tutta l’illusione che non sia ancora troppo tardi, c’è tutta la potenza di un controcampo finale negato ben lontano dagli inutili svolazzi di Birdman, ma al contrario unito a doppio filo con la passione più ancestrale. Quello di Shinozaki è un film che parla al Giappone, gli chiede di superare i dolori e di ripartire, per quanto possa essere difficile, senza però che questo superamento sia dissimulare e sopire le proprie emozioni come più o meno velatamente richiesto dal governo, ma al contrario di viverle fino in fondo, perdercisi per poi ritrovarsi, nuovi e forse più forti, riappropriandosi della propria emotività negata e ragionando sul presente e sul futuro.
Trovando una nuova forma a metà strada fra il germe di David Cronenberg e lo strazio del Sion Sono più autoriale, Sharing mette in scena personaggi tragici, sconfitti, indeboliti, disperati, in barba a quell’immagine di Giappone florido e sorridente che traspare dalla stragrande maggioranza dei film. Nelle forme del thriller psicologico, Makoto Shinozaki porta sullo schermo un’elegia del dolore e della fragilità, una sfida alla morte, una disperata resistenza al lutto e alle difficoltà. E quindi poco importano le piccole imperfezioni del film, a tratti talmente concentrato sulla complessità delle emozioni da risultare forse troppo poco lucido fra fantasmi, memorie e sogni: l’effetto è stordente, l’idea è originale, il coinvolgimento emotivo è forte e inevitabile. Perché la mente umana a volte è fallibile, messa in scacco dal cuore. Lo tsunami è un ricordo vivo e atroce per i giapponesi, una ferita forse impossibile da rimarginare sia per chi ne è stato direttamente colpito perdendo amici e parenti, sia per chi ne ha solo vissuto le immagini in televisione: Makoto Shinozaki, amico e stretto collaboratore di mostri sacri come Kiyoshi Kurosawa e Takeshi Kitano, con questo film parla della propria terra ferita, si strugge ma al contempo combatte, trovando forme narrative e psicologiche originali e acute. Combatte contro una tragedia, combatte contro la morte, combatte contro un governo. Da parte nostra, dinanzi a un cinema così politico e ancestrale, non possiamo fare altro che alzare il cappello, e sperare che questo tardivo passaggio festivaliero a Rotterdam, dopo le passerelle di Vancouver e San Sebastian, sia solo il primo di una lunga serie: Sharing merita di essere visto, sentito sulla propria pelle, amato. Anche nei suoi (pochi e umanissimi) limiti.
Marco Romagna