Forse è l’atto stesso di creare cinema l’unico modo per poter sopravvivere al dolore. Non (ancora) quello proiettato al buio sul grande schermo, ma quello che sta al passaggio precedente, nel mondo delle idee, nel fitto più contorto delle anime in pena. Un cinema intimo, individuale, interiore, fatto di sentimenti straziati e di discorsi sospesi fra ieri, oggi e l’ipotesi irrealizzabile di un domani. Un cinema personale con il quale ingannare se stessi, sceneggiatori, registi e unici spettatori del proprio flusso di pensiero, nel quale poter rivedere l’amore e ancora stare al suo fianco. Un cinema primordiale nel quale rifugiarsi per scartare consapevolmente dalla realtà e (auto)depistarsi, per immaginare un’alternativa, una seconda opportunità, un futuro (im)possibile. Un cinema privato che combina chimicamente ricordi, sogni e speranze, poetiche illusioni, grida silenti e progressivi disvelamenti, sempre più devastante nello scorrere delle lacrime. Un cinema segreto e solitario, costruito sul momento nei più reconditi angoli della mente e della speranza, nel quale il costante inventare immagini, linguaggi, forme e dialoghi impossibili è l’unica autodifesa rimasta per non farsi schiacciare dallo strazio del reale, per poter andare avanti, per riuscire lentamente a metabolizzare e ad adattarsi. Tanto che forse non è un caso che a Camille serva un adattatore, per riprodurre le normali musicassette sull’autoradio Stereo 8 della vecchia AMC Pacer Break del 1979. Ma non poteva prendere altra auto per andare via, la protagonista straordinariamente interpretata da Vicky Krieps, né ascoltare altra musica che non fosse la registrazione della figlia mentre, ancora bambina, si esercitava al pianoforte. «Basta fare scale, suona!», le grida ancora in quella macchina che fu dei primi appuntamenti con Marc, quando entrambi erano giovani, belli e spensierati. Eppure ora sta fuggendo, dopo un’ultima occhiata alle foto e le coperte amorevolmente rimboccate ai due rampolli. Via, al volante, verso una nuova vita lontana da loro. «È umano, se ne faranno una ragione», pensa, mentre nel suo personalissimo cinema psicologico parla a distanza con il marito abbandonato che sta spiegando ai bambini perché la mamma non tornerà, e ancora li vede mentre si rendono conto che nel bagno della vecchia casa ormai il padre ha buttato via i trucchi e lo spazzolino della moglie. Ma la sua tragedia ne nasconde una molto più grande, e la sua fuga da casa sarà destinata a rivelarsi un’evasione dalla nostalgia, dal tormento, dalla solitudine. Un disperato aggrapparsi all’ultimo barlume di speranza per tentare di elaborare il più insostenibile fra i lutti.
Basterebbe forse la musica che da diegetica continua extradiegetica come se nulla fosse anche dopo che il padre ha abbassato alla figlia il coperchio sulla tastiera del pianoforte, o quando al contrario sarà sufficiente chiudere un quaderno per fermare le note e ripiombare nel silenzio. Basterebbero le foto in Polaroid a una stanza vuota dal cui sviluppo istantaneo veder riemergere la famiglia ancora seduta felice intorno al tavolo. Oppure basterebbe il sogno di vedere quei due figli, bloccati nel ghiaccio con il padre ormai da due mesi senza che nemmeno sia stato ancora possibile recuperarne i corpi, che ancora crescono, si laureano, litigano, ridono, scherzano e vivono felici nell’immaginazione di una madre quell’esistenza che il destino ha loro strappato. È un continuo intrecciarsi di piani, Serre-moi fort. Quello di una donna a cui sono stati all’improvviso sradicati tutti gli affetti, e quello della sua immaginazione che, come un vero e proprio cinema, le costruisce intorno una storia differente con la quale sfruttare fino all’ultima scintilla di illusione per non impazzire, con la quale ancora ordinare la colazione per quattro nella camera familiare dell’hotel, con la quale liberamente vagheggiare su ieri oggi e domani. Una chimera che è impossibile nelle angosciate ossessioni del reale, con quella giovane musicista così simile alla figlia eppure semplicemente un’altra persona, ma invece quasi palpabile nel miraggio, dal mare alla coltre bianca, dai giochi ai fuochi, dal primo all’ultimo bacio. Forse, dopo aver sorpreso con i già splendidi Tournée, La chambre bleue e Barbara, il capolavoro da regista di Mathieu Amalric, autore fra i più indispensabili e sottovalutati della contemporaneità non solo francese, che prosegue coerentissimo nel suo percorso di linguaggi e commozione con un film, inspiegabilmente relegato nelle retrovie di Cannes Première quando avrebbe ampiamente meritato non solo il concorso ma probabilmente anche di tornare a casa da questa Croisette 2021 con in mano la Palma d’Oro, tanto necessariamente teorico nella sua perfetta corrispondenza fra ricerche formali e contenuti quanto straordinariamente umano nel suo strabordante trasporto emotivo.
Un melodramma sussurrato che nei suoi montaggi alternati bilancia miracolosamente le ossessioni, i tormenti e le illusioni destinate a infrangersi in una poetica profondissima e straziata, e che nel suo portare sullo schermo il cinema interiore della pièce Je reviens de loin di Claudine Galéa sembra quasi dialogare apertamente tanto con la narrazione e i ricordi del Tromperie di Desplechin quanto con la vecchia automobile e l’elaborazione linguistica del lutto del Drive my car di Hamaguchi. Ma questa volta non c’è un altro autista, per una macchina a cui non resta che togliere la neve dal parabrezza per rivedersi ancora circondati dall’amore, in una composizione per molti versi musicale nei suoi temi e movimenti dai primi abbozzi rallentati di Per Elisa ai fortissimi di Rachmaninov nella quale è solo la protagonista – come le ricorda un collega del marito a cui immagina di andare a chiedere lumi – a dover decidere come portare avanti la narrazione, quali siano i successi e gli insuccessi a cui andare incontro, quali siano le nuove vite senza di lei. Magari sognando il successo pianistico della figlia, novella Martha Argerich con tanto di capelli bianchi a sormontare l’apparecchio per i denti mentre le dita letteralmente volano sulla tastiera e il cuore si libra nel petto, oppure cadendo svenuta fra le forti e amorevoli braccia di Marc insieme al figlio che cade nella vasca da bagno, o ancora fantasticando sulla casa in montagna in cui di nuovo fare l’amore, stando attenti a non svegliare i bambini che dormono. Un’alternativa lirica che, proprio come gli spartiti della figlia e i disegni del piccolo cuciti nella fodera della giacca per non abbandonarli mai più e averli sempre con sé, è l’unico e disperato modo per tentare almeno nella fantasia di donare la salvezza a chi si ama, o per lo meno per riuscire a elaborare e metabolizzare quello che non sarà mai digeribile né accettabile. In attesa di quel disgelo che non potrà che portare alla sola e straziante verità, ormai impossibile da rifiutare, delle tre sacche nere sulle spalle degli alpini, di un puzzle di Polaroid come ultime tracce da cui far emergere i ricordi, di una casa ormai vuota da cui andare via, stavolta davvero e per sempre. Del tutto disarmati, senza nemmeno più illusioni, solo con un volante da tenere ancora in mano. Ma anche con un cinema personale in cui sapere di poter trovare sempre rifugio, ricordi, sentimenti, speranze e poesia. L’unica certezza, l’unica salvezza.
Marco Romagna