SELVA TRÁGICA (2020), di Yulene Olaizola
E se l’io voglio si facesse carne? E se fossimo chiamati a esperirlo non solo con il pensiero ma con tutti i sensi? A guidarci è la mano della messicana Yulene Olaizola, che ha fatto parlare di sé pochi anni fa con Intimidades de Shakespeare y Victor Hugo, premiato per lo sguardo sincero e non giudicante che posa sulla storia vera di un omicida seriale di donne, poeta e artista, nella sua amicizia con la nonna della regista. L’intreccio tra violenza, arte e sesso è dunque stato sempre un tema caro alla centramericana, e questo film, presentato a Venezia77 nella sezione Orizzonti, ne è un’ulteriore conferma.
Liberamente ispirato a La terra del fagiano e del cervo di Antonio Mediz Bolio, Selva Trágica risucchia lo spettatore nella spirale angosciante del verbo volere. La storia è molto semplice: la giovane e bellissima Agnes, in fuga con la cameriera Florence e un terzo uomo, è inseguita dal suo ricco pretendente inglese, deciso a punirla. Dopo la morte dei compagni di viaggio, sarà una banda di contrabbandieri alla ricerca del caucciù a prenderla con sé, contendendosi, a metà tra la protezione e la schiavitù, una donna sempre meno innocente e sempre più catturata da qualche forza misteriosa che li porterà all’annientamento reciproco.
Il film rievoca un passato sospeso, quello del 1920, in un territorio sospeso, quello del confine tra Messico e Belize: Rio Honda. Ma tutto è in realtà ancora più lontano. Olaizola sta alle calcagna delle antiche leggende Maya, che accompagnano lo scorrere della narrazione con un voice over che sa di vaticinio, e sta alle calcagna dell’umano, della selva intricata che sono le sue pulsioni più profonde, pronte a emergere sempre più prepotentemente in una foresta che di fatto ne fa da specchio e contenitore. In questo senso si può notare uno sguardo a Conrad e uno, sicuramente più palese, all’ispiratosene Apocalypse Now, per quanto un paragone tra i due non sia pensabile.
Ad aprire Selva Trágica è una sensazione di inquietudine. Il colore rosso spalanca la prima scena, segna il tratto dell’albero che, sotto i colpi del machete, piange bianco lattice che presto sarà gomma. Il ritmo del ferro, la musica dei primi minuti, insieme alle urla di scimmie agitate. Lo stridio sonoro diventa spina dorsale di tutta la narrazione, in accompagnamento alla voce ammaliante che ci sembra venire direttamente dal passato Maya. Subito il primo avvertimento mette in guardia dai misteri della selva: «Mantieni sempre i tuoi piedi saldi alla terra, non permettere al suo nettare di inebriarti». È una selva che «molto ti dà e molto ti toglie».
La camera, a tratti traballante, segue da dietro i primi personaggi che si vedono chiaramente (due donne e un uomo in fuga): il pubblico è belva in agguato. Gli affanni degli esseri in vita, gli accoppiamenti frettolosi, le corse in mezzo alle piante, gli spari, la resa insomma visiva e uditiva di una paura incalzante, sono in contrasto con il serafico fluire dell’acqua, nei momenti di pausa dal temporale. Una natura che spesso sembra piatta e immobile, ma che in realtà si prepara paziente – «Waiting for the enemy to come». Si scoprirà ben presto che il vero nemico è l’umano, e che l’atterrente giungla è anzi in qualche modo accogliente e partecipativa, per lo meno nei confronti della protagonista che ne diventa in qualche modo figlia. Protegge Agnes dagli agguati dell’inglese (sarà un coccodrillo a tenere il gruppo lontano, prevenendo la morte della giovane), avvolge il corpo morto di Florence di fiori bianchi e oscura improvvisamente la luce, come per coprirla, in lutto.
Questi continui opposti si riflettono a livello visivo. L’antitesi è una costante del film: luce e ombra, colori sgargianti e foschia grigia, immobilità e movimento (anche della camera). Tutto rispecchia il paradosso di una selva che non è intrinsecamente tragica, come il titolo sembrerebbe suggerire, ma forse solo un pretesto per il crollo delle barriere e dei freni dell’umano: è l’uomo, infatti, a essere tragico, nell’unico luogo in cui l’ombra avvolgente, umida e striata di liane, permette alla sua foga di venire a galla e venire in atto, con tutte le conseguenze che questo comporterà.
Il desiderio di possesso di un gruppo di uomini affamati si incarna qui nell’atto fisico di possedere la donna. Non si fa fatica a leggere una denuncia dello sfruttamento che l’uomo fa dell’ambiente (in questo caso la corsa famelica al “cicle”, il chewing gum simbolo USA) e una reazione da parte della stessa natura, più ricca di anticorpi di quanto non si possa pensare. E l’anticorpo in questo caso è Agnes, presto accostata alla leggendaria e fatale donna Xtabay dei racconti Maya.
Ma forse il punto focale di Selva Trágica è il verbo volere più in senso lato, quello di una società, come la odierna, cui Olaizola destina la sua opera, che fa del desiderio una ragione di vita e dell’esaudimento dello stesso un diritto – no matter what – quello dal quale il pubblico, ormai immerso nella selva come i protagonisti, è subito messo in guardia: «Voglia la sorte che colei che temi e desideri non appaia dinnanzi ai tuoi passi». Sembra che i verbi volitivi, così come l’avvicinamento di questi ad una idea di timore quasi reverenziale, vengano qui magnetizzati intorno alla ancestrale figura, quindi intorno ad Agnes. Il suo nome significa “castità” e “purezza”, e così anche le sue vesti bianche, o il suo sguardo è di bambina. Componenti che la abbandoneranno gradualmente, rendendola l’iconografia dell’attrazione. Il bianco diventa fango, i suoi tratti provocanti («I suoi occhi ti conficcano come due frecce che non puoi strappare»), e l’accostamento con il nome Xtabay costantemente suggerito. Si riconosce presto in lei la capacità di condurre gli uomini allo smarrimento: «Lei scappa come il fumo e tu la insegui come il vento: dove ti porta? Dove stai andando?».
Nella letteratura e nel cinema non mancano figure femminili di inquietante sensualità o sensuale inquietudine che diventano portatrici di una coscienza superiore e quasi oracolare. La trasformazione di Agnes ricorda per certi versi quella del personaggio interpretato da Kristen Dunst in Melancholia di Lars Von Trier. Anche il suo nome era parlante: Justine, come l’unica retta in un mondo incosciente, e anche lei, come la bellissima figlia della selva, all’avvicinarsi del pianeta e della catastrofe apocalittica ritrovava vita e tutto comprendeva, a fronte dei suoi familiari ora gettati in una sconosciuta insicurezza. Allo stesso modo, all’addentrarsi nel cuore di una foresta sempre più oscura e di fronte alle prime morti, e in parallelo con l’insorgere nel gruppo dell’idea di ribellarsi al “padrone” per avere di più, mentre le angosce degli uomini saranno progressivamente destinate ad aumentare quelle della giovane diminuiscono, come se in qualche modo trovasse il suo habitat in una sorta di volontà punitiva che mano a mano procede verso l’allucinazione.
La donna è di nuovo fatale: Agnes è il punto di approdo di una lunga schiera, che tra mito e letteratura, da Salomé alla Fosca degli scapigliati, si configura come moderna Medusa, irresistibile al punto che «se ti chiedessero la vita per poterla toccare, settanta volte la daresti». Xtabay è un maleficio, che ti porterà a «conoscere la vita per la prima volta» non avendo più «paura del dolore, bensì della felicità». Nessuno torna dopo averla conosciuta. E’ la sirena che Ulisse stesso avrebbe seguito, se non fosse stato così astuto da farsi legare. È la Natura stessa, che, ci ricorda la regista, è padrona del ciclo di vita e di morte.
Ma se Agnes incarna una natura volitiva, si può forse tornare ancora una volta a riflettere sul concetto di desiderio, leggendo in questa vicenda, attuale, antica ed eterna, una parabola intorno all’umana sete di conoscenza, la stessa che Omero dice siamo stati fatti per seguire. Il discorso allora potrebbe ampliarsi, la spedizione di uomini colorarsi di un tocco epico, mossa non solo dalla voglia di ottenere ma anche da quella di svelare, e la giovane potrebbe diventare metaforicamente le colonne d’Ercole, limite estremo del conosciuto. Dopo queste: l’ignoto. Il tentativo di varcarle: atto di ὕβϱις, letterariamente sempre punito dalle divinità. In questo senso, la selva è veramente tragica, o meglio, disperata. Perché se la scoperta fosse che al fondo di tutto c’è «solo una potenza selvaggia e ribollente che produce ogni cosa (…) nel turbine d’oscure passioni», la vita, dice Kierkegaard, «che cosa sarebbe se non disperazione?».
Ma non possono fare a meno di seguire il mistero. Per quanto la lotta sia persa in partenza, l’uomo non può rinunciare allo Streben nach dem Unendlichen, il faustiano, titanico “sforzo proteso all’infinito”, non a caso, da sempre collegato alla forza femminile.
Il valore dell’opera forse aumenta se si mette da parte la più evidente tematica ambientalista, certamente attuale, per lasciare spazio ad una visione più metaforica, che la rende applicabile ad ogni epoca, dalla notte dei tempi. E non è certo un caso, nella corsa all’atemporalità, che il film si chiuda con l’immagine dell’ultimo superstite che segue nel lago un’ipnotica Agnes, in attesa a braccia spalancate. Affondano insieme gentilmente, tra le acque nere e calme del cuore della natura. Non vediamo più bolle.
Bianca Montanaro