SEE YOU IN TEXAS (2016), di Vito Palmieri
Vorrei, per See you in Texas, fare una recensione diversa. Non da un punto di vista formale, come abbiamo fatto a volte in passato, usando formati collettivi riferendoci alla forma dei film stessi per delinearne meglio certi aspetti. Bensì da un punto di vista personale: nel senso che l’”io”, che solitamente uso, scrivendo di cinema, solo quando il limite tra oggettività e soggettività è talmente importante che devo spingermi in note personali, qua si riferisce ad un’esperienza fisica legata indissolubilmente al mio apprezzamento del film.
Dopo aver visto See you in Texas, già passato l’anno scorso al Biografilm di Bologna, al cinema Astra, ospite delle principali proiezioni del Bellaria Film Festival, mi sono incontrato con Giordano, amico da più di 3 anni (e collaboratore di questo sito) conosciuto in quel di Bologna durante una retrospettiva su Béla Tarr che sancì anche il mio modesto e minorenne inizio su CineLapsus, che è venuto amichevolmente a trovarmi. Abbiamo bevuto due birre, ci siamo incontrati con un altro amico, e siamo entrati in sala a vedere Imma. Dopo essere usciti e dopo aver cenato, ci siamo recati alla festa organizzata dal festival nella piscina vuota dell’hotel Ermitage, una festa scandita in tre parti: la performance teatrale/tributo alla Romagna dei Menoventi, il concerto dei San Leo e un visual dj set che, trasformando l’atmosfera del luogo in quella di una vera e propria discoteca, mischiava musica elettronica a proiezioni sovrapposte di un po’ di tutto, da Fellini a Teshigahara, da Murnau a Lang, passando per Brakhage. In quest’occasione, io ho conosciuto Filippo. Ecco, Filippo e See you in Texas sono due cose connesse, per me, facente parti dello stesso universo: mi era già piaciuto il film di Vito Palmieri, pur con delle riserve, ma nello sguardo di Filippo, nei suoi discorsi riguardanti il film, nonostante avesse le mie stesse perplessità, ne ho capito l’importanza.
Vi spiego meglio: il film di Palmieri si concentra biograficamente sulla routine di Silvia e Andrea, innamoratissima coppia di giovani trentini che hanno una vita di lavoro, montagna, amore. Il film inizia in discoteca, come i classici film sulla generazione Y, con Andrea che si osserva allo specchio: allo specchio si sovrappone la musica, alla musica le luci, poi gli sguardi, un riconoscimento con Silvia, un bacio. Lo stacco ci porta poi quasi subito sui titoli di testa che ci mostra il loro lavoro, in fattoria, con gli animali, con Silvia appassionata di reining (una pratica di equitazione). C’è dunque un incontro tra due mondi apparentemente distanti: la vita “divertita” della generazione tra neon, fumo di sigaretta scambiato con baci e alcolici da una parte, il lavoro manuale dall’altra. La loro peculiare situazione famigliare e vitale si può collegare a com’è reso il (goffo) lavoro in ufficio in Guida al (LENTO/VIOLENTO) lavoro (2016) o a com’è demonizzato goliardicamente il college in Spring Breakers: entrambi film, questi, in cui quest’altra vita è davvero una vita altra, nel senso di separata dall’essenza dei protagonisti, dal loro scopo. Qua invece tutto sta nella dicotomia, in un cinema diretto che diventa ricerca di una narrazione, dall’amore tenero nei silenzi e nei campi lunghi fino all’amore complesso nei campi-controcampi in macchina. Barili di birra, bicchieri pieni di Keglevich scolati come fosse acqua, neve – ed empatia, non verso un dramma ma verso l’universalità di una condizione e di una percezione della vita. Per lo sguardo comune forse la figura di un “contadino social”, che mentre dà il fieno ai propri maiali controlla le notifiche su Facebook, può sembrare paradossale, ma è anche una cosa da smitizzare, per allontanarsi dal moralismo; questa generazione è una generazione che è nata per comunicare in maniera diversa, crescendo con i media in continua evoluzione e con la nascita e la crescita di internet. Quando il sogno (reale) di Silvia di andare in Texas si trasforma nel suo viaggio (fittizio) in America, si crea il definitivo stacco tra narrativo e documentaristico in See you in Texas, creando una trama ben definita per conferire un aspetto tragico alla loro storia e per mettere in risalto ciò che ha reso il film possibile, ovvero il loro amore, il loro legame che si condivide tanto nei campi quanto nei pub. Ci sono sicuramente dei problemi qua e là, come la musica extradiegetica per riempire i silenzi, che svuota un po’ il fascino degli spazi e dei volti mostrati, oppure il fatto che nel melanconico pre-finale Palmieri mostri i due protagonisti fare sesso – tra l’altro messo in scena e non reale, il che è sotto certi punti di vista particolarmente impacciato in un’epoca che, tra Nymphomaniac di Von Trier, Love di Noè e Ana mon amour di Netzer, sta sempre di più mostrando amplessi reali anche nei film di finzione. C’è la necessità di fuga che scozza con l’amore per Andrea, l’amarezza che deriva dalla monotonia, immagini naturalistiche con bressoniano sguardo in macchina di un asino, e una lunga attesa del parto di una scrofa. E lei, prima di svanire in un mondo ad Andrea incomprensibile e lontano, si specchia nel finestrino, come Andrea si specchiava all’inizio, sempre alla ricerca dell’altro in se stessi, che sia sulle montagne o nel bagno di un locale. Il mondo continua imperterrito nel silenzio, e poi arriva la vita di Andrea in questa fittizia solitudine, con lui che lavora da solo o con gli amici (amici che hanno funzioni narrative ben precise: uno è una specie di spalla comica, l’altra serve come figura ausiliare e di consiglio per Silvia nella situazione “americana”) e porta un maiale al macello con enormi difficoltà come in Bella e perduta (2015) ma senza retorica animalista o ambientalista. E infine la macchina da presa viene sepolta. Che non ci sia più niente da raccontare? Che questo sogno americano fuori dai limiti della concezione giovanile della fuga, più o meno come la necessità di scappare in L’altra Heimat: cronaca di un sogno (2013), sia la scusa per portarci in una discussione di cos’è cinema e cos’è vita? Forse il regista convenzionalizza troppo la vita reale inserendo la narrazione; la narrazione esiste per uno scopo, ma il fatto che non venga esplicitato l’aspetto documentaristico sotto certi punti di vista può portare il film a prevaricare, a essere una storia normale in cui l’interesse della vita reale finisce in secondo piano. Forse il film è più un film di Silvia e Andrea che di Palmieri, ma tant’è: riusciamo a penetrare nella loro quotidianità e nella loro intimità con grande classe, senza troppi eccessi.
Ecco, queste stesse perplessità e queste stesse emozioni le ha avute anche Filippo. Ma Filippo proviene da un paesino (di cui ho già scordato il nome) tra Arezzo e le Marche, vive con la ragazza in una fattoria, anche lui, e manda avanti da anni un progetto di autosostentamento. Tuttavia era con noi nella serata a Bellaria, a ballare, a bere, a divertirsi, l’abbiamo conosciuto in discoteca, come nel prologo del film. È giovane, Filippo, e ama il cinema documentaristico tanto da essere venuto un giorno solo a Bellaria guidando un Piaggio Ape, ed è ripartito al sorgere del Sole. Non sapeva dell’esistenza del Biografilm ma è andato al Festival Internazionale del Documentario a Lipsia. Ama il cinema con una sincerità che non è legata al social o a un approfondimento filologico, ama il cinema perché ama l’informazione, ama il capire la società e il reale attraverso quello che le immagini possono mostrare e filtrare. Ed è attraverso questo amore e attraverso gli occhi di questa persona, che tanto s’era ritrovata nelle immagini del film e che probabilmente non riincontrerò mai più, che ho capito che, nonostante i succitati evidenti problemi, See you in Texas è davvero un film necessario.
Nicola Settis