SEDUTO ALLA SUA DESTRA (1968), di Valerio Zurlini
“Io nel vedere quest’uomo che muore
madre, io provo dolore
nella pietà che non cede al rancore
madre, ho imparato l’amore”Fabrizio De André, Il testamento di Tito
In una filmografia come quella di Valerio Zurlini, omaggiato dall’undicesima Festa del Cinema di Roma con la retrospettiva completa in pellicola alla Sala Trevi, Seduto alla sua destra segna un unicum. Non solo per l’inedita ispirazione biblica che si affianca a quella storica – e del resto il film, nelle intenzioni originarie, sarebbe dovuto essere un episodio di Amore e Rabbia, con le mani del regista bolognese ad affiancarsi a quelle di Pasolini, Godard, Bellocchio, Bertolucci e Lizzani, ma prese poi una strada diversa che lo rese più lungo e indipendente –, ma anche per la ben precisa contestualizzazione storica e geografica così lontana dalle abitudini del regista, che abbandona le sue donne e la sua Italia per lo più adriatica – il precedente Le soldatesse era sì ambientato in Grecia, ma avanti e indietro per i campi militari italiani durante l’assurda guerra voluta da Mussolini – per mettere in scena la sua metafora cristologica nel Congo belga, anche se in realtà gli oppressori sono semplicemente Europei: italiani, olandesi, francesi e tedeschi, invasori spietati e disumani, ma al contempo condannati alla lontananza dagli affetti, intrappolati in una vita che non è la loro. È uno strale contro l’Europa, Seduto alla sua destra, contro quelle politiche coloniali che, oltre a impoverire ulteriormente l’Africa portando via uomini e risorse, in nome della ‘civilizzazione’ hanno calpestato per troppi anni anche la dignità di chi cercava semplicemente di essere se stesso, con il suo colore della pelle, con le sue tradizioni e con la sua voglia di lottare. Ma è anche e soprattutto un profondissimo atto di umanità, che troverà il suo apice nella conversione di Oreste/Franco Citti, proiezione del biblico ladrone Tito, contrapposto alla sadica freddezza del Dimaco compagno di cella che non solo non aiuterà l’innocente, ma si scaglierà contro chi lo sta aiutando.
Prendendo spunto dalla biografia di Patrice Lumumba, leader indipendentista congolese antimperialista e filocomunista fatto assassinare nel 1961 dal colonnello Mobutu, golpista corrotto e sostenuto da USA e Belgio che sarà poi, grazie a una serie di colpi di Stato, presidente/dittatore del Congo (cui cambierà persino il nome in Zaire) dal ’65 fino al ’97, Zurlini ricontestualizza l’oppressione e la pietà mettendo in scena la passione di Maurice Lalubi (Woody Strode), torturato e fatto uccidere dall’esercito occupante nel tentativo, vano, di estorcergli l’abiura delle proprie teorie di uguaglianza sociale. Lalubi, dipinto a metà strada fra Cristo e Gandhi come un uomo giusto, non violento – anche se rifiuterà di firmare l’ordine di deporre le armi e sottomettersi – e “pericoloso” proprio perché dotato di una leadership naturale, come una sorta di luce da seguire in fondo agli occhi che lo rende un grande comunicatore, subirà percosse fino alla cecità, gli verranno inchiodate le mani alla scrivania, gli verrà ferito il costato, gli verrà fatto versare tutto il sangue, fino alla decisione imposta dal dittatore di colore ormai venduto al Belgio di farlo uccidere, nella certezza che il conseguente polverone si sarebbe presto diradato, e che una volta perso il loro leader i “negri” sarebbero tornati mansueti. Seduto alla sua destra è una rilettura laica e contemporanea della Passione che, fra stimmate, dichiarazioni di uguaglianza fra gli uomini, ladroni da ascoltare e perdonare, non violenza e una morte con i piedi incrociati eleva a figura cristologica colui che, solo per il colore della sua pelle, nel film è considerato alla stregua di una bestia, di un subumano, di un parassita. Ma non è un semplice ‘gioco’, né tanto meno una provocazione gratuita: con questo film Zurlini spinge il paragone ben oltre la metafora, fonde le due storie, le rende allegoria della guerra e del colonialismo, in un grido disperato che tutt’ora giace sottostimato in pochi archivi e in ancor meno memorie.
Oreste, il biblico Tito interpretato da un Franco Citti forse più ancor pasoliniano che con Pasolini, è un italiano che ha fatto cento lavori e cento ne ha persi, girando il mondo e tutte le principali patrie galere. È stato spinto dalla vita e dalla fame a rubare e a scappare, a vendere materiale pornografico e a truffare, ma ora di fronte al Cristo/Lalubi chiuso in cella in attesa di essere massacrato confessa le sue colpe e si pente, per poi ritrovarsi a soffrire reali pene sentendo i versi di dolore dell’amico, e dopo ancora a barattare con un secondino le ultime foto che gli erano rimaste con un gavettino d’olio per tentare di curargli le ferite. È Oreste il vero protagonista del film, colui che vede e crede, colui che vuole – e merita – di stare Seduto alla sua destra. Il suo strazio ancestrale, così opposto alla faccia di bronzo quando era lui la vittima dei pugni per aver venduto un carico di carburante continuando a dichiarare di aver subito un furto, è l’apice emotivo del film, nelle sue grida disperate quando riportano Lalubi in cella, nel suo rinunciare alle possibili ricchezze per curare le ferite altrui, nella sua disperazione nel vederlo ormai cieco declinata in quell’umanissima bugia “Ci sono le luci spente” a cui non crede proprio nessuno, nel suo prendere calci in faccia dal Dimaco seduto in cella senza fare nulla dal quale avrebbe solo voluto una manica per farne una garza, e poi ancora nel tentativo inutile di raccogliere l’olio da terra per rimetterlo nel gavettino, fino alla morte subito dopo Lalubi, “per non lasciare testimoni”, mentre i due corpi formano una croce. Ma i testimoni ci sono lo stesso: un bambino ha visto tutto, e ora scappa a zig zag evitando le raffiche di mitra, salvandosi, e riaprendo così le speranze dell’Africa – il passaggio di testimone, il futuro e la memoria. Il corpo di Lalubi è morto, ma è nato il simbolo, l’esempio, il simulacro per il quale (continuare a) lottare per l’uguaglianza sociale. Seduto alla sua destra è un’accusa e una richiesta disperata di pietà, è un film storico capace di mettere in scena l’Africa coloniale in tutte le sue contraddizioni e tutte le sue colpe, senza dimenticare mai di tenere al centro l’umanità, il cuore, la dignità degli uomini. Non sarà, e non è, il miglior Zurlini, ma è un ulteriore esempio di quanto sia stato un regista sommo, e di quanto sarebbe necessario, negli echi razzisti e fascistoidi che serpeggiano di nuovo negli ultimi anni per l’Italia, guardarlo e farlo guardare, nella speranza che faccia di nuovo aprire gli occhi a chi preferisce tenerli chiusi e vomitare fiele millantando la propria supposta superiorità.
Marco Romagna