SEDUÇÃO DA CARNE (2018), di Julio Bressane

Julio Bressane pare sempre più conversare con il suo cinema, plasmarlo verso un attraversamento dei sensi, movimento di sguardo periferico di sogno ed evocazione. Torna questa volta, ancora fra gli applausi di quella Locarno che più di ogni altro Festival ha dimostrato di amarlo, alla sua teoria più pura, di sintassi e forma, che dialoga con la materia pulsante e ne restituisce un’infinita frammentazione esistente nella sola possibilità. Sedução da Carne è un (qualcosa in) eterno movimento aberrante e mai riconciliato, per volere (e per parola) dell’autore un ponte possibile fra profezia e memoria, un incubo dello sguardo che si fa fisica sensualità a sottolineare il naufragio del progresso. Lontano dalla persistenza metafilmica di Educação Sentimental, dalla profondità di Garoto o dalla libertà di Beduino, questo film si esercita nelle sue forme e squadra le pulsioni, non troppo dissimile dal misterioso Erva do Rato. Lo mostra l’apertura, altro ponte possibile tra la Sils Maria nietzschiana e la ritualità indiana, altre ellissi in in cui il cinema ha la possibilità di annullare le distanze, neutralizzare le diversità, affiancare realtà parallele per la loro convergenza. Un esercizio di rimembranze e mancanze, la pietra della filosofia e la filosofia della sabbia, luce e aria, acqua di lago e di oceano. Spunta lo stesso Bressane, il suo volto davanti alla macchina da presa, verticale per guardare fin dove scruta l’albero secolare, si tirano le reti sul mare, i pesci vengono a galla spezzando l’onda e così le sue tracce incontrano le nostre orme corrose da gocce di sangue – la stessa presenza assente della roccia di Surley. La bellezza del gesto che si fonde con la limpidezza del pensiero, sopravvivere è una forma intertestuale e delocalizzata, una reiterazione quasi panteista in cui la comprensione di ogni minimo elemento diventa momento di riflessione e respiro all’interno del quale si esercita la realtà. Osservare l’esistenza è l’unico tentativo di comprendere il movimento della vita (e della sua immagine) come i segreti del mondo, nelle tonalità del pianeta resiste la sua memoria e nel nostro volerle cogliere la speranza.

Ciò che segue è la presenza di Siloè (come la fonte d’acqua miracolosa ai piedi del monte Sião dove Gesù ridiede la vista ad un cieco, il miracolo della visione), la sua essenza o forse la sua contingenza con la materia. Si presenta la vedova, di fronte al suo pappagallo amante dell’espressione umana, del sogno che possa trafiggere la realtà. Anche la morte del marito galleggia tra il mistero e la meraviglia di una scoperta, scomparso tre anni prima sulla costa che dovrebbe donare vita e invece l’ha tolta. Splende nel buio e regna su tutta l’oscurità, Siloè che parla con il suo pappagallo guardiano della memoria e del divenire. Potrebbe essere quello di Humboldt che nel Sud-America del 18esimo secolo parlava una lingua sconosciuta, potrebbe essere l’ultimo erede di una cosgomonia che in lui sopravvive all’estinzione, potrebbe essere il simbolo del paradiso terrestre come il padre spirituale della nazione ora chiamata Brasile. Lo straordinario dialogo di primissimi piani e i dettagli dell’uccello e della donna declinano il piano del sogno, della sensibilità della carne, della sensualità più pulsante di ogni muscolo. Leonardo da Vinci dialoga con João Ribeiro, così come la piuma con la pelle, e l’ombra con l’anima riflesse in una finestra opaca. Il desiderio è godimento, la conoscenza è esperienza, il fantasma è materia. Così il verbo diventa il nervo, la rimembranza si solidifica come espressione fisica, la carne passa da esser oggetto a soggetto di quel desiderio. Appare un frammento del sangue animale di Franju mentre la carne macellata ora si muove, insegue Siloè quando abbandona la casa, la assale fino a possederla. Lei si fa complice e si astrae nel suo esser posseduta da un’carne altra, forma di ectoplasma e sdoppiamento dei sensi come dei piani (lettura che l’autore riferisce al fotomontaggio e alle immagini manipolate nel 1913, all’interno del circolo spiritista francese della medium Marthe Béraud). «Somigliante a un’apparizione, la viscera, la trippa fredda di carne, tocca nel corpo vivo di Siloè, si incolla in lei. E sprofonda, non diversamente da certe città favolose coperte dalle acque in seguito a un cataclisma catastrofico. Lo schiacciamento è lento e completo. Io, ridotto in frantumi, soffoco nel banchetto dell’oscurità»1. Così chiude lo stesso Bressane la profonda e completa disamina del suo film (potete leggerla interamente qui), sulla quale sono basate anche parte di queste riflessioni. La patologia del cinema è quella dell’amore ricordato, la persistenza fisica di una memoria che è possessione di carni e corpi, dettagli erotici di un oblio da scongiurare.

Opera dalla terribile sensualità e dalla lacerante profondità, questo Sedução da Carne rappresenta un altro capitolo fondamentale nella carriera di uno dei più grandi autori moderni, un tassello forse meno libero e flagrante degli ultimi, ma straordinario nella sua disamina spirituale e filosofica tra pratica e teoria, tra anima e carne, tra sguardo e desiderio, fino alla loro liberazione. Come se la macchina stessa che muove il film fosse una dinamica quasi meccanica tra il destino e il divenire, qualcosa da avvicinare come l’Engandina e Kovalam in apertura del film; nella volontà ferrea del ribadire come il cinema possa ancora inventare luoghi dell’immaginazione, come creare immagini altre ed esterne a quelle provvisoriamente montate. Ricostruire il sottile filo che unisce Nietszche e i pescatori è come disegnare quello tra Siloè (una sublime Mariana Lima) e il suo pappagallo, ovvero tornare all’eterno ritorno, a come la ritualità possa sfuggire a questo apocalittico eterno presente perché radicata nel passato e tesa verso il futuro. Qui il ruolo, linguistico e politico, di un cinema così radicale e unico come quello di Bressane, sempre diviso tra la sua località di esercizio e l’apertura verso l’infinito, come spazio filosofico ed empirico che oltrepassi la medialità del testo e l’orpello della cultura fine a se stessa. Una sopravvivenza legata essenzialmente all’esperienza sensibile, a una deriva di impressioni da fissare, guardare e dunque filmare. Ed è proprio nella pratica filmica di Bressane che si condensa tutto questo apparato teorico, nel suo sguardo sempre limpidissimo e puro, nel suo montaggio fluente ed immaginifico, nella sua immagine che qui ha bisogno del contrasto saturo del digitale (e delle aperture di diaframma a sgranarne di impossibile fisicità le sfocature) per poter esser restituita. È una pratica filmica che risiede ancora nello svelamento, nello sdoppiamento di una finzione cinema che dona alla realtà un’altra possibilità. «Rimemorare dolorosamente un passaggio della vita, della vita di qualcuno in cui l’immaginazione e la musica erano realtà, evocare un passaggio incantato come nei nostri migliori sogni, ma in cui una sciagura del destino viene a sbarrare qualsiasi meraviglia. La morte inaspettata, là dove tutto indicava esserci l’inizio della vita, di una nuova vita, produce un tremore che scuote tutto il corpo sensibile. La regione della luce che alimenta la sensibilità peregrina viene invasa da una bruma dissimulata che la oscura»2. È ancora Bressane, sguardo-uccello-parola, a ri-pensare e ri-scrivere il suo film come sua pratica poetica e politica. Questa pratica è il flusso, di film mancati e perduti, di immagini lasciate alla loro deriva e qui riemerse, questa pratica è il set infinito (e familiare, la moglie filosofa – studiosa proprio di Nietszche – Rosa Diaz è complice nella scrittura del film) nel suo esercizio umano e creativo, filmato come fuoricampo del nostro stare qui. Di mezzo rimane l’anima che si specchia tra le acque e le carni, qualcosa che di misterioso ed irradiante che ci mostra la presenza sensibile dell’infinito come la trascendenza della sensibilità di un pensiero. La seduzione diventa dunque luce, e la conversazione continua di Bressane attraverso il suo cinema è il mostrarlo come esercizio continuo dell’anima nel tentativo continuo di comprensione. Un atto d’amore, il più sincero possibile.

Erik Negro

1 Julio Bressane, “Breve divagazione” sul suo film “Sedução da Carne” inviata ad Alias (traduzione dal portoghese a cura di Roberto Turigliatto) https://ilmanifesto.it/seduzione-della-carne/
2 Julio Bressane, “Breve divagazione” sul suo film “Sedução da Carne” inviata ad Alias (traduzione dal portoghese a cura di Roberto Turigliatto) https://ilmanifesto.it/seduzione-della-carne/