LE MARGHERITINE (1966), di Vĕra Chytilová
Mettere per iscritto una linea di trama per Sedmikrásky (o Le Margheritine, o ancora Daisies che dir si voglia), secondo lungometraggio e opera più famosa di Vĕra Chytilová, sarebbe impresa pressoché impossibile. Perché “succede” di tutto in Sedmikrásky, nel ritmo narrativo forsennato di una commedia drammatica e profondamente amara dedicata, apertamente, a chi ancora si indigna e continua a lottare. Si inizia, già dai titoli di testa, con gli ingranaggi di un volano per la filatura, quindi le donne, alternati alle bombe sganciate dagli aerei statunitensi, maschi, sul Pacifico durante la Seconda Guerra Mondiale, per poi presentare le due protagoniste, entrambe di nome Marie, che siedono in costume da bagno su una piattaforma, annoiate e robotiche nei movimenti accentuati da stridori industriali/legnosi e nelle parole che escono meccanicamente dalle loro bocche. Parlano di come il mondo sia diventato cattivo, malvagio, e di come diventare cattive come il mondo possa essere l’unico modo per sopravvivere. Improvvisamente, si ritrovano di fronte al biblico Albero della conoscenza del Bene e del Male, che poi ritornerà con un ruolo maggiore nel successivo film della Chytilová, Il frutto del paradiso, e di esso mangiano il frutto, non certo a caso una mela, per ritrovarsi altrettanto all’improvviso nel loro appartamento, pronte a distruggere sistematicamente tutto ciò che si troveranno di fronte, dalla carta al cibo, dall’etichetta alle emozioni degli uomini, fra scherzi sempre più irriverenti e voracità nello scroccare. Le due Marie si lanciano in appuntamenti galanti con uomini ben più anziani e con ridicoli collezionisti di farfalle, vengono messe alla porta per aver creato un putiferio in un locale anni Venti, si ritrovano fra fiori e frutti in una sorta di Giardino dell’Eden nel quale tutto si può trovare fuorché la salvezza, e devastano tutto ciò che gli capita a tiro, fino a ritrovarsi in una fabbrica abbandonata e poi in una stanza con un enorme buffet imbandito, probabilmente destinato agli uomini del Partito, nella quale si lanciano cibo e piatti, ballando sul tavolo rompendo le bottiglie, e poi venendo condannate a rimettere tutto a posto, sommariamente, senza cura, perché la scricchiolante società cecoslovacca che di lì a due anni si sarebbe trovata in piena Primavera di Praga, l’accuratezza, di certo non la meritava. Fino alla caduta su di loro di quello stesso lampadario su cui le due si erano appena scherzosamente arrampicate, proprio come le bombe marchiate USA, lanciate dagli aeroplani, annientavano il Pacifico durante la Guerra.
Quello messo in scena da Vĕra Chytilová è un lucido cinedelirio pliniano, esplosivo e ipnotico, pronto a deflagrare in ogni singola inquadratura, in ogni singola situazione, in ogni singolo cambio visivo. È una metafora pienamente politica, che vira nella commedia surreale le sue istanze di uguaglianza e di autodeterminazione, e al contempo è un trattato di regia unico, un qualcosa di mai visto né prima né dopo, fra bianco e nero, imbibizioni policromatiche e colori profondi, saturi, lisergici. La prima incursione nel colore per la regista, e probabilmente, (non solo) all’interno della Nova Vlná di cui è opera fondamentale, il film più audacemente avanguardista, rivoluzionario, visionario, “folle”. Lo compongono pigmenti seducenti e irresistibili, che penetrano in profondità nell’occhio alternando stili ed emozioni, mentre i tasselli si innestano in ellissi temporali e in continue incursioni nell’assurdo, fra forbici per tagliare le salsicce (ovvio riferimento sessuale alla distruzione del sesso maschile) e pannocchie rubate nei campi più per gioco che per fame. Tanto che, di fronte a questo nuovo e pur buonissimo restauro digitale realizzato dal Národný Filmový Archìv di Praga in collaborazione con il Festival di Karlovy Vary, la memoria non può che correre con un po’ di nostalgia al DocLisboa 2017, quando nell’ambito della retrospettiva completa tributata alla geniale cineasta ceca Le margheritine era stato proiettato nella sfarzosa copia 35mm di proprietà dello stesso Národný. Una versione che nulla aveva a che fare con ogni successiva digitalizzazione compresa quest’ultima presentata nella Salle Buñuel di CannesClassics 2022, irraggiungibile nella potenza cromatica di ogni singolo fotogramma, contrastato come solo un supporto fisico sa essere contrastato, e brillante come solo il triacetato che passa di fronte alla luce bianchissima di una lampada alogena può restituire nei suoi 24 fotogrammi al secondo. Perché è un’esperienza visiva insostituibile, Le margheritine, fatta di sbalzi, salti, viraggi che si ergono a simbolo, colori strisciati mentre il treno corre verso l’ignoto, mele verdissime, fiori, farfalle, fuoco e immagini splittate, frammentarie, “rotte”, ritagliate come ciò che passa sotto le forbici delle due Marie. Un film fatto di pelle, di corpi femminili come autodeterminazione, di piena coerenza stilistica di Vĕra Chytilová in un senso di avanguardia inedito e probabilmente mai più raggiunto. La distruzione di cibi, oggetti e luoghi perpetrata dalle due Marie è una forte e provocatoria presa di posizione contro una macchina statale sempre più farraginosa, che stava dissimulando la sua agonia nelle cerimonie, nei banchetti e nelle feste danzanti (ben preciso punto d’attacco anche per il Miloš Forman del quasi contemporaneo Al fuoco, pompieri) in cui le vecchie muffe di Partito ancora esercitavano il loro potere, senza nemmeno rendersi conto di quanto si stessero rendendo ridicoli nel loro ostentare ciò che avevano nei fatti già perso.
Le scorribande di Marie I e Marie II, fra la commedia slapstick e gli assurdi dialoghi in barca, nient’altro sono che il tentativo di trovare un proprio posto nel mondo, o forse di trovare un mondo che sappia capire e abbracciare la loro sconfinata libertà, che poi è la stessa libertà che Vĕra Chytilová si prende nei confronti del mezzo cinematografico. Per poter ricostruire, ripartendo da zero, bisogna prima rompere, bisogna saper essere beffardi, bisogna saper eliminare l’equilibrio per poi cercarne uno nuovo, più umano e meno ingessato, più sincero e meno bloccato nei giochi di potere. Ed ecco quindi che i lenzuoli bianchi vengono tagliati per far emergere i colori delle coperte, ecco che i vestiti cadono sotto le forbici, ecco che il cibo viene schiacciato, impastato, mescolato, e poi avidamente fagocitato, proprio come la società (del tempo) che fagocita(va) le donne e la loro legittima voglia di parità, uguaglianza e felicità. Perché è la felicità ciò che conta. Una felicità (im)possibile, destinata a rimanere schiacciata dal lampadario che cade come una bomba, o forse destinata a deflagrare, devastando tutto ciò che cerca di ostacolarla. La Storia ci dice che Le margheritine fu censuratissimo, che Vĕra Chytilová venne allontanata dai set cinematografici per diversi anni, che il potere centrale, sentitosi sbeffeggiato, prese a pretesto gli sprechi di cibo per trovare il modo di ostacolare il film, la sua uscita e la sua distribuzione. Ma era ormai troppo tardi: la bomba era già stata lanciata, prodotta – in maniera ancor più beffarda – con denaro governativo, e nessuno, per lo meno due anni dopo, poté più ignorare la violenza della sua esplosione. Le margheritine è cinema militante, ironico e distruttivo, visionario e sardonico, insurrezionale e anarchico, mordace e magnificamente insolente. È un capolavoro assoluto, un unicum nella storia della settima arte, fatto di rossi, di gialli, di verdi, di blu, di salti stranianti, di inquadrature impossibili, di viraggi magnetici, di suggestioni ora paradisiache e ora infernali, di dialoghi e situazioni graffianti. È un puro atto di ribellione e resistenza, contro la Cecoslovacchia di un Patto di Varsavia ormai irreversibilmente incancrenito da Stalin, contro il maschilismo imperante, contro la falsità delle istituzioni. È un qualcosa di più che mai vivo, vibrante, attuale. È un qualcosa del quale è impossibile fare a meno. Specialmente in pellicola, specialmente in questa copia strabiliante. Basta lasciarsi ipnotizzare, non opporre resistenza. Il resto sono “solo” brividi.
Marco Romagna