Prima o poi, purtroppo, doveva succedere che un film di Lav Diaz lasciasse tutto sommato freddi, non “arrivasse” se non negli ultimi 30 minuti su 234′, non convincesse appieno nella sua forma e nella sua sostanza. Perché Season of the Devil è indubbiamente un bel film, radicale e teorico, simbolico e fortemente politico, dedicato sin dalle primissime battute introduttive «agli amici» comunisti, oppositori del regime di Marcos, violentemente schiacciati dai gruppi paramilitari del CHDF, eppure gli manca o quasi un qualcosa che, nel cinema di Lav Diaz, quali che fossero le sue forme, mai aveva latitato. La grande assente di questo film, o per lo meno la grande ritardataria che giunge solo nell’ultima sezione e che, anche quando arriva nelle fiamme che avvolgono la casa di una delle protagoniste, viene tagliata prima che possa raggiungere il suo apice senza quasi lasciarle il tempo di attecchire sullo spettatore, è la potenza lirica, è quello stravolgimento emotivo multisensoriale tipico e inimitabile dell’autore filippino, ciò che ha sempre reso il suo cinema unico e originalissimo un assoluto miracolo. Le avvisaglie c’erano da tempo, del resto, forse già dai tempi di Norte (2013), che segnò la sua incursione nel colore e in una durata meno estrema rispetto alle sue solite sei, otto, magari dieci ore, e soprattutto, dopo tanti anni di cinema sublime relegato ai margini dell’invisibilità, il suo ingresso in quel mondo scintillante di lustrini e paillettes che è il Festival di Cannes. Un mondo assaggiato e mai più raggiunto, eppure un mondo che ha segnato profondamente Lav Diaz e il suo cinema, portando l’autore a tendere sempre più verso le vetrine festivaliere, sempre più verso i (meritatissimi, ma valeva la pena riconsiderare il proprio cinema fino a rischiare di snaturarlo per non raggiungerli lo stesso?) spiragli di notorietà, sempre più verso quella Cannes che mai più lo ha voluto. Sia ben chiaro, era un capolavoro Norte, così come capolavori miracolosi e irripetibili erano stati i film precedenti del cineasta filippino e così come lo sarà il successivo From what is before, ma con l’ingresso nella selezione ufficiale della Croisette qualcosa in Lav Diaz era cambiato, lo aveva portato verso un’evoluzione del suo linguaggio, verso una svolta, destinata a concretizzarsi non tanto nel già citato From what is before, Pardo d’oro a Locarno 2014 per manifesta superiorità, quanto nei successivi e “solo” grandissimi film A lullaby to the Sorrowful Mystery e The Woman who left, fatti di inusitate vette ma anche di qualche istante meno convincente, e in generale diversi da quell’assoluto miracolo che era il suo cinema precedente, in cui i tempi della vita entravano nei tempi cinematografici portando lo spettatore in una vera e propria sospensione, in un mondo-altro in bianco e nero e nel quale si è sempre ripercorsa la travagliata Storia delle Filippine.
C’è sempre stato un patto non scritto, fra il cinema di Lav Diaz e i suoi (pochi) spettatori, un reciproco scambio, un reciproco concedersi fiducia. Da una parte c’è(ra) il pubblico, disposto a rimanere in sala per durate oceaniche composte da inquadrature fisse mai inferiori ai 10-15 minuti, dall’altra c’è(ra) l’autore con la sua capacità unica di ripagare con istanti di trasporto emotivo unici e irripetibili, fatti di una lirica a lungo caricata e poi lasciata deflagrare devastante, sublime, irresistibile e inarrestabile. Il cinema di Lav Diaz, o per lo meno il primo cinema di Lav Diaz, è sempre stato un flusso nel quale immergersi fino a perdere ogni tipo di cognizione dello spazio e del tempo, nel quale magari non è semplicissimo entrare ma poi, una volta superato lo scoglio dei primi 90′, lasciare da parte ogni resistenza, lasciandosi letteralmente trasportare nelle Filippine, in una realtà parallela nella quale vivere e soffrire con i protagonisti, in una presenza fisica che dimentica la macchina da presa, la poltrona e lo schermo per sentirsi lì, in mezzo a loro, travolti dagli eventi della Storia e dal cuore inestimabile dell’autore più importante degli ultimi 20 anni. Quello di Lav Diaz è sempre stato un cinema inedito, lontano anni luce da qualsivoglia tempo cinematografico, lontano anni luce da qualsivoglia standard, in cui l’estrema dilatazione era proprio la via con cui creare la “botta” di empatia e strazio, di emozioni e riflessioni. Da qualche anno a questa parte, però, il cinema di Lav Diaz è cambiato, diventando più narrativo, spesso più breve e, se non altro per la qualità dei mezzi passati da una handycam da quattro soldi al full HD delle fotocamere digitali, indubbiamente più estetico e curato rispetto ai vari Heremias, Melancholia, Death in the land of Encantos, Florentina Hubaldo e Century of birthing. Già From what is before, seppure ancora ampiamente inserito nel linguaggio cinematografico (in)spiegabile e quasi soprannaturale dei maggiori capolavori nelle sue sei ore, nel suo bianco e nero e nei suoi simbolismi, portava in dote una cura fotografica inedita, ulteriormente migliorata prima nelle fluviali 8 ore di A lullaby to the Sorrowful Mystery in cui forse solo le ultime due raggiungevano – ma eccome se li raggiungevano! – i suoi reali livelli, e poi nelle 4 scarse, nettamente più montate e più veloci, che componevano il Leone d’Oro mai distribuito The Woman who left, film ancora una volta straordinario e potente oltre i limiti del devastante ma, come scritto al tempo della prima veneziana, quasi imparagonabile rispetto al passato nel ritmo del montaggio, nel minutaggio e nella struttura narrativa.
Non è certo un male rimettere in discussione le forme espressive della propria opera, così come non è certo un male sperimentare nuove vie per giungere a un risultato analogo, ma bisogna sempre stare attenti, specialmente in un cinema intimo e personale come quello di Lav Diaz, a non snaturarsi, a non perdere la propria sfera sentimentale, a non voler cercare di fare un film lontano dalla propria sensibilità. Lav Diaz sembrava aver trovato in questo senso un nuovo punto di equilibrio proprio con The Woman who left, film pienamente “suo” nell’emotività e nella potenza eppure evidente scarto dalla “sua” filmografia, giusto compromesso fra la durata massima ammessa da un concorso festivaliero principale e la poesia del suo cinema. Il suo cambio però, e ancor di più le motivazioni/imposizioni de facto che sembravano aver portato Lavrente a scartare dalla sua abituale lingua filmica, destavano già al tempo qualche preoccupazione a latere degli apprezzamenti, lasciavano qualche dubbio, aprivano, proprio mentre esultavamo per il Leone d’Oro, allo scenario al quale tristemente ci si trova di fronte oggi, con un’accoglienza berlinese (quasi sempre) rispettosa e interessata ma generalmente fredda, senza i soliti entusiasmi, senza l’emozione che, quando si tratta di Lav Diaz, è sempre lecito aspettarsi.
Quelli che erano i timori e le avvisaglie di possibili deragliamenti che emergevano da film comunque straordinari, in Season of the devil presentato in concorso alla Berlinale sembrano essere diventati una china ormai (definitivamente?) intrapresa, una conferma che ovviamente si spera diventi prontamente smentita dal prossimo lavoro di Lav Diaz. La nuova opera del regista filippino, contrariamente alle aspettative, sembra quasi essere stata concepita e portata a termine più per piacere ai selezionatori festivalieri che per reale ispirazione dell’autore, più interessante nei suoi spunti teorici che nella realizzazione pratica, quasi come se il Leone d’Oro avesse fatto in un certo senso male all’autore, scoprendo il suo fianco al rischio di un’autoreferenzialità non più così lontana. Sia ben chiaro, Season of the Devil è pur sempre un film di Lavrente Indico Diaz, non è affatto un “brutto” film, e anzi è un film profondamente politico e almeno a tratti potente, che torna al ’79 falcidiato da Marcos per mettere in scena torturatori e torturati, miliziani e popolo, violenti e vittime. È un film originale e radicalissimo, intelligente nel mescolare il linguaggio della forma canzone con il linguaggio cinematografico e, dall’altra parte, la Storia con i simboli (meta)fisici di un Narciso/Giano Bifronte che parla senza sottotitoli come a indicare la pedissequa follia del corpo paramilitare che lo segue senza nemmeno capirlo. Ma Season of the Devil è anche un film che per oltre tre ore e mezzo, ovvero circa sette ottavi della sua durata, non “arriva”, non smuove l’anima, quasi privo di quella lirica che è sempre stata cifra stilistica e senso più intimo del cinema di Lav, inspiegabilmente freddo nei confronti dei personaggi messi in scena, troppo costruito e ripetitivo nella sua pur buona idea di destrutturare il musical con canti sgraziati e straziati a cappella che sostituiscono i dialoghi e quasi inevitabilmente allontanano l’autore dai suoi protagonisti, in definitiva poco intimo nel suo racconto corale, e a dirla tutta nemmeno sempre coerente nella messa in scena. Ci sono inquadrature (fin troppo) estetizzanti, fatte di strepitose ma tutto sommato sterili silhouette che emergono dai controluce, alternate a inquadrature (fin troppo) amatoriali, (fin troppo) “buona la prima”, in cui non è difficile vedere morti che respirano, attrici che non ricordano il testo della canzone e se lo leggono sulla mano, pestaggi vistosamente finti, momenti in cui si sgrana la qualità dell’immagine come se fosse stata zoomata digitalmente. Il che sarebbe stato pienamente accettabile in un “vecchio” film di Lav, in cui il punto non era l’estetica ma la sincerità straziata del suo flusso poetico, ma non può che balzare all’occhio come un difetto nel momento in cui invece, subito prima e subito dopo, l’immagine e la fotografia presentano una cura così certosina, mentre l’emotività appare più controllata, distante, quasi come se Lav non sentisse ciò che sta mettendo in scena, come se avesse fatto il film per “tenere la media”, come se lo avesse fatto per autoimposizione più che per la solita, e necessaria, reale e intima necessità. Del resto, per quanto la teoria che sta dietro all’utilizzo di canti spesso stonati ad accentuare le sofferenze patite dal popolo sia indubbiamente uno spunto ben più che interessante, la stessa natura di esperimento di un film che va a muoversi in territori mai percorsi dal cineasta filippino come il musical sembra quasi indicare una crisi creativa e di idee, con la destrutturazione di un genere il più possibile lontano dall’abituale poetica di Lav Diaz quasi messa su a coprire la poca ispirazione e il relativo trasporto innestati questa volta in un film che, banalmente, non è fino in fondo nelle sue corde.
«Manca la melodia» dirà a un certo punto, cantando su ben precisi toni e linee (e quindi su una melodia) una delle protagoniste, quasi a voler giustificare la sostanziale non lirica del film, ma svelando in un certo senso il paradosso di un Lav Diaz che sembra (umanamente, ben prima che cinematograficamente) mai così confuso, mai così incerto sulla strada da prendere, sospeso fra il suo cinema unico e forse irripetibile e la comprensibile volontà di arrivare a più persone possibile portando i suoi film sui palcoscenici più illuminati a costo di accettare compromessi, a costo di modificare – e a rischio di esagerare e di perdersi nel farlo – la sua poetica e la sua lingua filmica. Basterebbe soffermarsi sul cast, composto da attori professionisti, star filippine evidentemente necessarie per la natura di (anti)musical del film, che però poco c’entrano con il cinema di Lav Diaz, un cinema che a ragion veduta ha sempre preferito facce e sentimenti veri, quelli di uomini e donne comuni, magari pescati da quella giungla verso la quale Lav ha sempre puntato la sua macchina da presa, il suo occhio e ancor di più il suo cuore. Forse è la natura di esperimento a rendere Season of the Devil un po’ troppo freddo, programmatico, non emozionante quanto Lav Diaz sa emozionare, o forse è più semplicemente un film meno riuscito degli altri, del resto nemmeno dai più grandi si possono sempre pretendere capolavori, specialmente quando cercano, anche in maniera apprezzabile, di percorrere sentieri inediti. Se non fosse un film di Lav Diaz anzi, e quindi senza le altissime aspettative che un autore del genere inevitabilmente porta in dote, probabilmente sarebbe ben maggiore l’entusiasmo, e altrettanto probabilmente questo scritto si sarebbe concentrato sui non certo pochi pregi probabilmente glissando o quasi sui difetti. Ma queste cose, per chi ama da tempo Lav Diaz e fra chi ama da tempo Lav Diaz, vanno dette e motivate, perché il punto non è quello di essersi trovati di fronte a un film diverso da ciò che ci si aspettava, il punto è la natura di questa diversità, è il trasporto molto meno forte del solito e che arriva solo nell’ultima mezz’ora, è il costante ritorno dei soldati fra un’angheria e l’altra, è tutta una parte centrale che ristagna in un paio di concetti e di idee di messa in scena ripetute all’infinito, facendo forse per la prima volta percepire un film di Lav Diaz, peraltro nettamente fra i suoi più brevi, come lungo. Però poi, dopo 210 minuti di dubbi e attese in cui il film “funziona” e interessa ma non porta via, arriva finalmente la mezz’ora finale, sublime, straordinaria, e passa quasi tutto.
Season of the Devil è un film spiazzante e volutamente estenuante, drastico quanto meravigliosamente probante nel suo canto a cappella e nella totale assenza di musiche, costruito sulla poetica di una forma canzone utilizzata per dare corpo alla narrazione e ai non-dialoghi con gli stessi testi, tutti firmati da Lav Diaz, ripetuti più volte nel corso del film a stratificarsi progressivamente acquisendo sempre nuovi significati. Il canto, quasi come gli stornelli pasoliniani di Mamma Roma, diventa strazio per chi è calpestato e sadico mezzo di derisione, con il La la la la la la più volte intonato dai soldati durante le loro angherie nei confronti dei ribelli, per chi calpesta, vero e proprio strumento di tortura che delinea una commistione di linguaggi e di poetiche capace, direttamente dalle stonature e dalle voci rotte e lacrimate di chi intona i dialoghi, di lasciare emergere tutto lo strazio profondo dei repressi, degli umiliati, degli annichiliti. La cornice narrativa è corale, spartita fra donne la cui famiglia è stata sterminata dai soldati e poeti la cui moglie è scomparsa nel nulla, dottoresse volontarie che giungono nel villaggio per aiutare il popolo e perfidi soldati privi di pietà che, pendendo dalle labbra del narciso capitano Narciso rappresentato come un Giano Bifronte incomprensibile, perpetrano le più gravi torture fisiche, psicologiche e verbali sulla gente. Ma la tortura più grande è un’altra, è l’incertezza, è il non sapere che fine abbiano fatto i propri cari, quale sia stato il loro orribile destino, quale sia il loro luogo di sepoltura. Il popolo disperato trova la forza di andare avanti solo nella reciproca solidarietà, nell’amore, e i militari fanno in modo di negare loro proprio amore e solidarietà, accanendosi sulle vittime e trascinandole in una spirale sempre più asfissiante di dolore e di disperazione. Simbologie metafisiche e mitologiche di streghe e vampiri entrano a stratificare le menzogne dei soldati, mentre un bambino lancia aeroplanini di carta che molto spesso tornano indietro, quasi beffardi, a testimoniare la difficoltà nello scrollarsi di dosso un destino sadico, atroce, condiviso nella sofferenza. In una simile realtà storica e sociale, l’unico modo per potere ancora sfuggire al terrore e almeno per un attimo vedere la poesia è bendarsi, chiudere gli occhi, lasciarsi trasportare dalle parole e dalla loro musicalità, mentre subito al di fuori legge e giustizia smettono di coincidere, diventano opposti forse incompatibili. Nella catatonia dolorosa di chi non ha più fiducia e speranza, i nomi svaniscono, restano indietro nella memoria, ma rimane la mancanza fisica di chi non ha più una famiglia. Nel destino comune di chi è costretto a soffrire, rimane la coscienza, rimane la forza, rimane l’umanità, e come i soldati hanno abbattuto impuniti le statue delle Filippine che erano state, ora è tempo per il popolo di abbattere i manifesti di Narciso, di sfidare apertamente il proprio destino, di lottare fino all’ultimo per la propria autodeterminazione e per la propria libertà, o per lo meno per sapere cosa sia successo. Anche a costo di ritrovarsi nell’ambulatorio ormai vuoto a piangere, anche a costo di ricevere la visita dei soldati e del loro la la la di morte, anche a costo di finire i propri giorni fra le fiamme, o ancora peggio nel luogo esatto in cui la propria moglie è stata ripetutamente violentata e uccisa, con in mano la pistola con cui restituire la propria vita in cambio di quella conferma che è la definitiva (non) serenità. Perché anche in Season of the Devil, ovviamente, ci sono istanti sublimi, pillole di quei momenti straordinari che solo Lav Diaz sa creare, sequenze di fronte alle quali chiunque ami il cinema non può che genuflettersi, lasciandosi pervadere da quelle sensazioni non replicabili a parole, ma che si possono solo vivere nei brividi e negli occhi lucidi. Solo che, questa volta, ce n’è molto – troppo – meno del solito, in un film “solo” bello, nel quale non è difficile trovare problemi di varia natura, e quindi per gli standard del suo autore nettamente minore. Lav è ancora in tempo per rendersene conto, per fare marcia indietro e tornare alle sue vette di assoluto, per tornare a ciò che solo lui sa fare. È solo necessario che qualcuno glielo dica, glielo faccia notare, gli parli con il cuore in mano e con tutto il rispetto che merita quello che probabilmente, da vent’anni a questa parte, è il più grande di tutti. A patto che rimanga se stesso.
Marco Romagna