SCHOOLYARD (2014), di Rinio Dragasaki
“Pace fra gli uomini e sul mare una tranquillità senza vento,
luogo di quiete e di sonno nell’affanno dei soffi impetuosi»
Platone, Simposio, 197c
C’è una scuola di pensiero, per molti versi condivisibile, secondo la quale ideare e dirigere un cortometraggio possa essere molto più difficile che fare un lungo. E capita in effetti troppo spesso, anche nei circuiti festivalieri, di assistere alla proiezione di lavori più o meno interessanti, ma che raramente riescono a trovare una sostanza che vada davvero al di là dell’esercizio di stile o del cinema nel suo aspetto più ludico, rivelandosi, oltre alle possibili sperimentazioni visive o narrative, come film fondamentalmente vuoti e privi di un reale significato. Per via del poco tempo a disposizione, serve infatti alla base un’idea forte, sintetica ma al contempo ben radicata, che riesca ad ergersi a paradigma, allegoria o metafora di una situazione o di una condizione portando in grembo il proprio senso più profondo, e sapendo trovare il giusto linguaggio cinematografico per esprimerlo su uno schermo. È raro che accada, ma quando si verificano queste condizioni di sintetica compiutezza, il cortometraggio riesce ad essere una vera e propria gemma, portatrice di senso, di idee e di emozioni come l’ottimo Schoolyard del giovane regista ellenico Rinio Dragasaki, presentato al Lucca Film Festival 2016 e in grado di racchiudere in meno di dieci minuti tutta la marcescenza di uno Stato che, dopo aver insegnato al mondo intero la civiltà, sembra averne drammaticamente dimenticato i principi.
Con arguzia, il regista parte nella sua allegoria politica dalla scuola, momento della formazione dell’individuo e al contempo, se non altro per la convivenza forzata con altre persone, efficace simbolo di tutta la società. Il momento nel quale il gioco della vita può iniziare a farsi violento, il momento nel quale un gavettone iniziato come gioco in una calda ricreazione estiva in cortile diventa vernice, e poi un uovo, e poi un sasso, e poi sangue che cola dalla lavagna. Il gioco diventa scontro, l’amico diventa il nemico, la scuola diventa il campo di battaglia e il campo di battaglia diventa la vita: dalle bocche colpite dai palloncini sgorgano ora fiotti di sangue, dolore e rabbia. Fino all’amarezza di un finale che è però anche un messaggio, una soluzione, l’idea di fondo: un rogo di libri, lentamente si intravvede la copertina in fiamme, il testo di Storia. C’è bisogno di riscoprire ciò a cui si sta dando fuoco preferendo la barbarie, urla sommesso Dragasaki nel suo profluvio di immagini, c’è bisogno di riscoprire la Storia di una cultura millenaria come unica via perché la Grecia possa rialzarsi. Schoolyard sfrutta mirabilmente le possibilità date dalle moderne macchine da presa digitali nella precisione dei ralenti, girando un cortometraggio stilisticamente sospeso fra il videoclip e l’elegia allucinata, fra simbolismi, musiche, palloncini d’acqua che esplodono e una voce off che sembra quasi squarciare il cielo. Il film di Dragasaki mette in scena in slow motion e senza dialoghi, nei giochi di gioventù che progressivamente si fanno sempre più violenti, tutta la Grecia degli ultimi anni, tutti i tafferugli, tutta l’ipocrisia di chi accoltella alle spalle i propri compagni, tutto il crollo del capitalismo che diviene follia collettiva.
Ma è a questo punto necessario, per capire l’importanza sociale e cinematografica di un lavoro come quello di Dragasaki, un piccolo passo indietro, una breve riflessione su quel cinema greco contemporaneo che attraverso la propria new wave “capitanata” dal trio Lanthimos-Tsangari-Avranas sta ormai da diversi anni portando avanti un cinema spocchioso, arrogante, che all’umanità preferisce di gran lunga la provocazione ammiccante, la rivincita estetica dello squallore e l’affermazione personale. Quella del nuovo -e pessimo- cinema ellenico è una corrente che nasce dai default economici, dall’avanzare di Alba Dorata, da anni di malgoverni corrotti e dalle dure ma tardive manifestazioni di piazza, una corrente che si nutre di una situazione sociale e politica che porta all’egoismo, alla mancanza di cooperazione, alla sfiducia nei confronti del proprio vicino e dell’uomo in genere. E dalle stesse premesse sociali nasce in effetti pure Schoolyard, ma laddove la new wave esibisce un’idea di cinema profondamente reazionaria, intimamente perfida e non di rado destrorsa, nella quale l’homo è necessariamente homini lupus, si veda Chevalier della Tsangari che tuona dal proprio pulpito come sia giusto giudicare i propri simili deridendone i difetti, Dragasaki mette in scena una progressiva discesa agli inferi che trasuda dolore, umanità, amarezza ma anche voglia di cambiare e ricominciare, ripartendo da quegli stessi vecchi fasti che ora vengono dimenticati e rinnegati. Una differenza sostanziale d’approccio, che passa dal regista come deus ex machina intoccabile e onniscente a semplice individuo che mostra una realtà altrettanto sporca, ma entrandone progressivamente a far parte e sporcandosi umilmente (in maniera anche letterale, in questo caso) insieme ai propri protagonisti e alle proprie allegorie. Schoolyard è un viaggio lacrimato nella Grecia di ieri e di oggi, ma anche, attraverso la riscoperta della Storia e della cultura, una speranza nella Grecia di domani. Unita nel recupero della propria civiltà e finalmente libera dalla corruzione, dai focolai neonazisti, dalle oppressive politiche di austerity, dalle ingiustizie sociali che si ripercuotono sempre sui più deboli. Una Grecia, insomma, che la smetta di prendersi a mazzate da sola, nella quale l’ipocrisia capitalista del proprio ristretto cantuccio possa ridiventare unità nella lotta di classe e nella riappropriazione di una così illustre identità nazionale. In barba, stilisticamente, umanamente e politicamente, alla spocchia altezzosa della new wave: questo è il cinema greco che ci piace!
Marco Romagna