È più che sufficiente l’elenco dei nomi che compongono il sontuoso cast vocale internazionale, per stuzzicare sin dai titoli di testa di Schirkoa: in Lies we trust l’interesse cinefilo. Una scelta consapevole, ben precisa e profondamente simbolica, che nel chiamare a raccolta Anurag Kashyap, Shekhar Kapur e in generale il gotha di attori e registi del cinema indiano contemporaneo per affiancarli alle guest(all)star Golshifteh Farahani, Asia Argento, Gaspar Noé, la francese Soko e perfino Lav Diaz, e nel chiedere espressamente loro di pronunciare almeno qualche frase nella propria lingua madre oltre all’inglese dei dialoghi principali, non solo vuole creare una babele di lingue e culture in cui le due città opposte di Schirkoa e Konthaqa rappresentano entrambe tutto il mondo negli eccessi delle sue due facce, ma stratifica in una sorta di mappa geografica della contemporaneità l’intera metafora politica del film, fra l’obbligatorietà fascistoide dei sacchetti a coprire i volti che non può che finire almeno per il tempo di una canzone per specchiarsi nei veli e nelle ingiustizie sociali dell’Iran (in lotta) dell’attrice feticcio (non solo) di Farhadi, e la poesia (non certo per caso) sulla libertà (impossibile nella corruzione dilagante e nella violenza di Stato delle Filippine prima di Marcos, poi di Duterte e ora dei figli di entrambi) che il personaggio doppiato da Lav Diaz recita in tagalog prima di uno straziante e spettacolare suicidio rituale che a sua volta, in qualche modo, riunirà la sensibilità e i cuori (letteralmente) spezzati di un’intera cultura panasiatica. Del resto è un film complesso e ambiziosissimo quello con cui l’animatore indiano Ishan Shukla esordisce al lungometraggio, coronando un sogno ventennale iniziato da giovanissimo con l’idea per una una graphic novel diventata nel frattempo il corto Schirkoa (2016) e ora definitivamente (?) portata a compimento con questa sua espansione a 103 minuti, presentata a gennaio nella sezione Bright Future dell’International Film Festival Rotterdam e in questi giorni, dopo decine di apparizioni festivaliere in giro per il mondo, approdata anche in prima italiana al Trieste Science+Fiction 2024. Un film, come si diceva, profondissimamente politico, tanto essenziale nel nitore orwelliano della sua allegoria distopica quanto in realtà ben più profondo e stratificato di quanto possa sembrare in ogni sua singola scelta di cast e di linguaggio; un film strabordante di riferimenti all’una e all’altra cultura, all’una e all’altra situazione storico-politica, all’una e all’altra cinematografia che la mette in scena, in qualche modo rappresentativo dell’intera contemporaneità non solo d’Oriente ma mondiale. Un film talmente politico che anche la (interessantissima, e tutta da esplorare) tecnica con cui realizzarlo non può che a sua volta essere in qualche modo una ribellione, un sovvertimento di ogni prassi, una vera e propria mutazione grafica e visiva, la ricerca di un qualcosa di realmente mai visto in precedenza. In qualche modo un’Anomalia, come vengono chiamati nell’iper-ordinata città di Schirkoa quelli che all’oramai abusato (e spesso infelice) concetto di resilienza preferiscono contrapporre (finalmente) una vera e propria, sana, necessaria Resistenza.
Ma non corriamo troppo, andiamo per ordine. Prima di tutto c’è la distopia. Da una parte, come anticipato, Schirkoa, grande metropoli (come New York, ma in realtà anche come Tokyo, come Hong Kong, come tutta un’intera fetta d’Asia che guarda verso Occidente) nei suoi grattacieli e nella sua oppressione verso le individualità di una popolazione tenuta (letteralmente) sotto un sacchetto da un governo falsamente democratico, che nasconde sin dalla nascita i volti di cittadini che non sanno nemmeno come sono fatti e che al posto del nome assegna loro una sigla identificativa con cui definitivamente omologarli. Una città basata sulle tre S, «sicurezza, sanità, santità» continuamente ripetute come un mantra, e regolata dalle norme annichilenti e rigidissime di un’oligarchia, non a caso ulteriormente mascherata sotto i rudimentali sacchetti di carta con solo i buchi per gli occhi e una boccuccia kawaii, che sparge odio e paura inventandosi nemici con cui guerreggiare e falsi déi da rivendicare, mentre pronuncia frasi impossibili da capire ma alle quali è obbligatorio credere e soprattutto alle quali è obbligatorio applaudire «per finanziare il partito» in Parlamento. Dall’altra parte, come in uno specchio rovesciato, la “nemica” Konthaqa, luogo di fuga e d’esilio per le Anomalie retta (più o meno) dalla sirena Lies (alla quale presta la voce Asia Argento con tanto di improperi in italiano), sorta di sintesi caotica e un po’ (troppo) anarchica e selvaggia delle periferie indiane che in maniera quasi uguale e opposta vive la sua libertà assoluta (anche di mutare fisicamente, di cambiare sesso e di volare con le proprie ali) nell’intrinseco kitsch della più pura disorganizzazione sociopolitica, in cui la totale mancanza di regole di pacifica convivenza diventa in qualche modo un’«oppressione della libertà». Una città alternativa fatta di gigantesche statue dorate e di continui sfoghi creativi, in cui un’eccessiva sensibilità, in un mondo regolato da tutt’altro, non può che essere un’arma a doppio taglio, tanto più nella quasi costante sofferenza dei continui (o per lo meno ciclici) attacchi esterni da parte del mondo (sedicente) “civilizzato”, che di volta in volta si inventa un qualcosa di diverso da insegnare o da liberare. È in questa netta scissione in due luoghi quasi perfettamente opposti e al contempo perfettamente universali che Ishan Shukla immagina la parabola narrativa da cittadino modello a scintilla della Rivoluzione del protagonista 197A, dalla sua candidatura per l’(inutile) Parlamento alle sue amicizie nei bassifondi dei quartieri più malfamati di Schirkoa, dal suo incontro (suicida, sessuale, sentimentale, bellissimo, inconsapevolmente infame, e poi all’origine dei sensi di colpa) con la dissidente tatuata senza sacchetto che si rivelerà poi essere un’Anomalia al personale atto di ribellione di scoprire il proprio volto per rendersi conto con sorpresa di essere egli stesso un’Anomalia. E poi dal fuoco alle ali, da Schirkoa a Konthaqa nella vasca (e sul palco, e in pista) con Lies e poi di nuovo a Schirkoa, da uomo a donna e da donna a uomo, da innocente a colpevole e da colpevole a innocente più consapevole. Da cittadino ubbidiente all’anatomia stessa di un’insurrezione personale e collettiva, dalla passiva accettazione della repressione al progressivo bruciarsi della miccia della rivolta.
Lo stesso spirito come si diceva tecnicamente ribelle con cui Ishan Shukla, partendo dalla perfetta fluidità dei movimenti della motion capture per poi rielaborarla con un potente motore grafico per videogiochi, dà vita alle sue città immaginarie e ai suoi personaggi inventandosi una ‘nuova’ animazione che mescola liberamente e in maniera del tutto originale 2D e 3D, atta a creare due interi mondi ricchi di dettagli, di chiaroscuri e di cromatismi al neon, in cui muovere ariosa la (non) macchina da presa all’inseguimento dei personaggi fra le lame di luce che tagliano i fotogrammi. Eppure non è certo un caso che, quando gli onnipresenti schermi televisivi in giro per la città di Schirkoa trasmettono i messaggi di propaganda, la tecnica di animazione ritorni quella classica in 2D, perché non può esserci alcuna reale novità da parte di chi comanda, non può esserci spazio per la fantasia, ma solo per la standardizzazione e l’appiattimento, per l’annullamento di ogni individualità e se possibile di ogni emozione in nome degli slogan e di regole assurde quanto rigorose. Così come non è un caso che, quando i personaggi in cima a un tetto fantasticheranno non sulla ribellione ma sul suicidio, il loro (divertentissimo) vaglio delle possibilità su come lanciarsi per essere scientificamente certi di morire sul colpo non può che essere reso con schizzi rapidi e abbozzati, grossolani, perché «è la Resistenza il carburante per la nostra arte», e non la resa. O forse il vero carburante, anche della Resistenza, è semplicemente l’amore, sentimento di per sé sempre e comunque rivoluzionario. L’amore carnale e l’amore spirituale, l’amore individuale e l’amore verso il prossimo. L’amore come antidoto all’oppressione e alla morte. L’amore platonico per l’amica prostituta che sogna di andare via, l’amore bruciante di desiderio per la giovane ribelle con il suo volto e i suoi tatuaggi, l’amore come corrispondenza di sensi (e di sesso in continua transizione) con Lies. E poi l’amore per il popolo, l’amore per la vita, l’amore per la singolarità di ognuno, l’amore per una città, l’amore folklorico e divino. L’amore per il tempo, che scorre cronologico ed ellittico in un arco di anni e di differenti blocchi narrativi nei quali trovarsi di volta in volta (anche fisicamente, magari anche nella voce) differenti, qualsiasi siano il proprio ruolo del momento e il proprio mondo di appartenenza in sostanza intrappolati fra le pastoie di una guerra magari intermittente ma proprio per questo non meno interminabile, e probabilmente irrisolvibile. Con o senza corna, con o senza ormoni femminili, con o senza ali, con o senza contezza della realtà, con o senza la forza di reagire alle bugie di Stato. Con o senza speranza, forse, ma se per la repressione può essere abbastanza semplice non farla nascere, è impossibile ucciderla una volta che inizia a bruciare nel profondo di un cuore, di un gesto, di un’insubordinazione, di un’immagine, di una poesia, di una tecnica d’animazione, di un film. Di una visione che prende forma libera e potentissima, e che fra sussurri e grida va fino in fondo e si stratifica, rifiutando in ogni modo di lasciarsi addomesticare. Fino a un cinema, per citare Godard, non solo contenutisticamente politico ma, in ogni suo aspetto, realmente «fatto in maniera politica». E non è forse questo il senso più compiuto e profondo possibile di un’ispirazione artistica?
Marco Romagna