SCENE DA UN MATRIMONIO (versione estesa televisiva – 1973), di Ingmar Bergman

Forse il modo migliore per approcciarsi a Scene da un matrimonio, ennesimo straordinario tassello bergmaniano girato nel 1973 in 6 puntate per la televisione svedese, è partire da un altro capolavoro di 30 anni dopo, Sarabanda, ultimo film di Ingmar Bergman e sorta di settima puntata in cui la stessa coppia di protagonisti, dopo 30 anni di silenzio, si ritrova ancora una volta. A un certo punto, in Sarabanda, gli occhi di Marianne inevitabilmente si gonfiano sotto il peso dei ricordi e della malinconia. «Piangi per il nonno?», le chiede Karin, nipote di Johan d’altro matrimonio e di altra (non) famiglia. «No, piango per Johan e Marianne», risponde lei, ricordando il loro rapporto di un tempo, il loro essere ottimi amici, il loro reciproco supportarsi e appartenersi, la devozione della moglie anche di fronte ai tradimenti seriali del marito che forse fu la vera causa della fine, ma anche la deriva assurda quanto inevitabile del loro matrimonio, la fine di un amore (im)possibile, negato, diviso, eppure ineludibile, ancora e forse per sempre bruciante, destinato a sopravvivere negli anni ai cambiamenti e alle relazioni. Dall’iniziale Innocenza e panico fino al reciproco «buonanotte» di dieci anni dopo Nel bel mezzo della notte in una casa buia da qualche parte nel mondo, passando per L’arte del nascondere le cose sotto il tappeto quando iniziano i primi sintomi di crisi sessuale, per Paula quando Johan tornerà a casa dichiarando come un fulmine a ciel sereno che il giorno dopo sarebbe andato via con un’altra donna che rimarrà rigorosamente fuori campo, per La Valle di lacrime quando sarà la stessa Marianne a convincersi della necessità del divorzio e per Gli analfabeti (emotivi) quando l’indecisione e la frustrazione porteranno fino alla violenza e ai sensi di colpa mentre, singhiozzando, si firmano le carte con le quali dirsi addio, Scene da un matrimonio è la fine di un amore che non finirà mai, introspettiva riflessione di Ingmar Bergman sulla sua sua stessa vita amorosa e sulle sue più vive ossessioni. Dopo l’ineluttabilità della morte, il rifugio nel ricordo, il silenzio di Dio, l’identità e il ritorno a quei Sussurri e grida di chi è impegnato nel trapasso, Ingmar Bergman si concentra con i suoi dialoghi fitti e spesso brutalmente crudeli sull’umanità e sulle emozioni, sui sentimenti, sui baci, sui rapporti di coppia e sulla loro fine. Ci sono i suoi genitori, in Scene da un matrimonio, ci sono le violenze verbali e fisiche alle quali assistette da giovane in casa, ci sono i rapporti umani fra chi domina e chi si mette da parte, ci sono i ribaltamenti di questi ruoli nelle varie fasi di ogni coppia e soprattutto c’è lui, le sue cinque mogli e innumerevoli amanti per un totale di nove figli, i suoi ripetuti abbandoni per cambiare vita salvo poi puntualmente stancarsi ancora una volta, il suo rapporto con Liv Ullmann finito solo pochi anni prima di chiamarla per mettere in scena la (non) fine dell’amore, il suo bisogno/colpa di essere infedele innestato in Johan e nelle sue vicende, nei suoi repentini cambi, nelle sue insoddisfazioni, nei suoi nervosismi, nella sua sostanziale solitudine. È l’intimità il vero motore di Scene da un matrimonio, sono la potenza e la finezza dei ritratti umani, sono le contraddizioni e le ambiguità dei sentimenti. Sono gli occhi dei protagonisti, Liv Ullmann ed Erland Josephson, che trasmettono emozioni e strazio, lacrime e piccole gioie, necessità di appartenersi ed egoismi, bocconi amari e coscienza di se stessi e della propria indipendenza. Ingmar Bergman li mette in scena quasi sempre in primo piano, limitando al minimo indispensabile i movimenti di macchina e cogliendo tutta l’intensità degli attori e della sua capacità di dirigerli, le labbra carnose, l’erotismo dei fiammeggianti capelli lunghi. L’Eastmancolor 16mm, standard televisivo del tempo, si impressiona dei loro volti e dei loro sguardi, mentre il fallimento del loro matrimonio li porta finalmente alla sincerità reciproca, ma forse mai a una reale serenità. Non c’è spazio per la musica, né diegetica né extradiegetica, così come non c’è spazio per Dio, totalmente assente dalla vita della coppia: contano solo gli esseri umani, la loro fragilità, il loro strazio nascosto sotto la durezza di una frase con la quale si sa benissimo di ferire.

È un viaggio lungo 10 anni, Scene da un matrimonio, dal decimo anno insieme di Marianne e Johan fino al rendersi conto, al momento del nuovo fugace incontro dopo la lunga separazione, che sarebbe stato il loro ventesimo anniversario. Dall’intervista iniziale rilasciata a un rotocalco rosa che inventerà di sana pianta come il rapporto fatto di amicizia e reciproca convenienza fra Marianne e Johan fosse l’inossidabile idillio amoroso che chiunque vorrebbe, attraverso le sei Scene da un matrimonio i protagonisti giungeranno alla piena coscienza di se stessi e del proprio rapporto, della propria sessualità e del proprio desiderio, della propria libertà e del proprio unico e inossidabile amore, scintilla che sempre scocca anche dopo le urla, anche dopo le aperte crudeltà, anche dopo il divorzio, anche durante e dopo le nuove relazioni. Anche nella disapprovazione di quei rispettivi genitori che si era sempre cercato di non deludere, anche nella freddezza di due figlie che non perdoneranno mai l’egoismo del padre, e che mai capiranno le sue ragioni. Stavano bene, Marianne e Johan, erano a loro modo soddisfatti, entrambi già reduci da un precedente matrimonio – naufragato nel più completo odio verso donna e figlio quello di Johan, finito sotto il trauma del veder morire un neonato quello di Marianne – e ben felici di dividere la propria residua vita l’uno con con l’altro, ma la mancanza di passione verso la quale stavano inevitabilmente procedendo non poteva che scavare e trasformare le piccole crepe in fratture e poi in voragini. A partire dal finale della prima puntata, Marianne incinta, il lungo e meravigliosamente scritto dialogo nel quale i due discutono, cambiando mille volte idea, se tenere o meno il bambino, e poi il letto d’ospedale già dopo l’aborto, a far finta che non sia successo nulla ma a provare un inaspettato rimorso. Marianne, dalla completa devozione per cui «quando ci sono amicizia e reciproco supporto l’amore non è così importante», subirà la crisi, l’abbandono, la consapevolezza che gli amici già sapevano ciò che le era stato tenuto nascosto, e poi l’analisi e l’autoanalisi, il cercare di arrovellarsi sulle proprie colpe, sugli errori compiuti nell’essere troppo accomodante e concentrata su quello che gli altri avrebbero pensato di loro. Diventerà con dolore una donna nuova, libera, consapevole, emancipata, ma conscia anche della necessità reciproca di incontrarsi e ritrovarsi di tanto in tanto, come amici, come amanti, come una coppia unita anche nella separazione e nel silenzio, perché alcuni legami sono forse impossibili da recidere ben al di là dei difetti, ben al di là degli errori, ben al di là delle ragioni, dei torti e dei rimpianti. Del resto, il loro matrimonio già da qualche tempo presentava segnali di crepe, anche se la coppia sembrava non rendersene conto. Mentre Marianne e Johan, di fronte alle furiose litigate dei loro amici, pensavano di essere «l’eccezione che conferma la regola», la coppia che fra amicizia, abitudine e razionalità sarebbe sopravvissuta anche all’egoismo mai nascosto di lui e alla sempre maggiore freddezza dei loro amplessi, Johan iniziava a far leggere le proprie poesie alle colleghe sul lavoro e non alla moglie, e nel frattempo Marianne veniva sconvolta dalla richiesta di divorzio della signora Jacobi, nel cui racconto di matrimonio (non) felice perché privo di reale sentimenti al di là dello stare bene insieme non poteva che vedere specchiata la propria vita, mettendo in nuova luce la sua atrofia di emozioni e i suoi problemi coniugali ormai sempre più difficili da dissimulare. I conflitti fra Marianne e Johan sono di natura emotiva e materiale, e non è possibile mediare, è solo possibile prenderne atto: il dialogo non porta più a nulla, si può solo dissimulare, cercare di tirare avanti il più possibile la relazione fra espliciti patti e taciti accordi, per poi arrendersi all’evidenza, al turbamento, allo shock. Tutti sbagliano, in Scene da un matrimonio, tutti hanno torto, eppure tutti hanno le proprie ragioni, le proprie sfaccettature, le proprie complessità, il proprio intimo dolore che porta a scelte forse ancora più dolorose. E la necessità, prima o poi, di tornare a baciarsi, come in un legame impossibile da recidere.

«Mentre scorrono le immagini dell’isola di Fårö», ogni puntata si conclude con i titoli di coda letti dalla voce fuori campo, un po’ sul modello di quelli di Orson Welles ai tempi del suo L’orgoglio degli Amberson, così come ogni puntata si apre con un riassunto della precedente mentre scorrono i fermoimmagine dei momenti più duri e intensi. Rispetto alla versione cinematografica del 1974, ridotta dalle quasi 5 ore di quella televisiva a meno di tre, quella integrale proiettata al Bergamo Film Meeting 2018 ha occasione di entrare in maniera molto più approfondita nella forza e nella debolezza dei suoi personaggi, ha modo di penetrare fino in fondo la loro sincerità e la loro intimità, dilata quanto necessario le contraddizioni e le indecisioni di chi, impotente, sta vedendo la propria vita andare in frantumi. L’onestà dell’approccio di Johan quando lascerà Marianne per fuggire con Paula è la brutalità della verità, è l’alzare all’improvviso quel tappeto sotto il quale si erano nascosti dieci anni di silenzi e di compromessi, è il fulmine a ciel sereno più devastante per chi era totalmente impreparata a una simile eventualità, e non è difficile leggere in quelle pronunciate da Johan guardando negli occhi Liv Ullmann le stesse parole che non molto prima le disse Ingmar Bergman, quando in una simile sera e in un simile cottage la stava definitivamente (?) lasciando. Certo, da avvocatessa divorzista Marianne ha inevitabilmente ben presenti la fine degli amori, ma mai più si sarebbe aspettata che il suo matrimonio e la sua vita felice sarebbero stati ribaltati così, in una notte, in un dialogo. Fra tardivi baci e disperati abbracci, quello di Marianne è lo strazio della moglie che prepara le valigie al marito in fuga d’amore con un’altra donna, è il suo piangere e implorare per cercare di convincerlo a non partire o per lo meno non subito, e dall’altra parte è la decisione già presa di Johan di non concederle la possibilità richiesta. Johan si stancherà ben presto anche di Paula, disgustato dalla sua gelosia, infastidito dalla sua tendenza al dramma, ma questo non servirà a riportare in vita un matrimonio ormai finito, abbandonato, lasciato fra i chissenefrega in quella Valle di lacrime in cui il forte autobiografismo di Scene da un matrimonio viene ancor più esplicitato mentre i protagonisti ripercorrono le proprie vite, accompagnati dalla fotografie dell’infanzia e dell’adolescenza di Liv Ullmann e di Elrland Josephson. Gli attori e i personaggi si fondono, e così la realtà e la finzione, la memoria e la messa in scena, la vita e il cinema, nella capacità unica dello sceneggiatore Ingmar Bergman di scavare con inusitata profondità nella vita e nell’anima degli esseri umani, nei loro dubbi, nelle loro paure, nei loro dolori. Fra amplessi rifiutati e poi voluti per certificare la raggiunta mancanza di legame emotivo, fra abbracci nel letto degli ex coniugi senza più reale intimità mentre al telefono Marianne lascerà il suo attuale spasimante, fra nuovi matrimoni (in)felici e il nuovo (e rigorosamente temporaneo, clandestino) ritrovarsi dopo altri 7 anni, Marianne impiega molto tempo per eliminare la sua dipendenza da Johan, per potersi ripensare e per poter riconsiderare se stessa e il suo approccio ai sentimenti, e nel frattempo Johan passerà dal sogno di una cattedra in America alla consapevolezza di essere stato preso in giro dall’Università, mentre sarà sempre più brutale ed egoistico nelle sue valutazioni della vita sentimentale e sessuale con Marianne, con Paula, e poi con chissà quante altre. Del resto è lo stesso Johan ad autodefinirsi un analfabeta emotivo, notando come la carne e il desiderio debbano necessariamente accompagnarsi all’amicizia e al reciproco rispetto, ma anche come non esista educazione o corso per poter vivere i propri amori. Fino a non voler più divorziare, a chiudere la porta del suo ufficio sequestrando in sostanza Marianne, fino a quello schiaffo, quel rivoletto di sangue, quell’infinito senso di colpa, lo scoramento più totale mentre mette la firma che metterà per sempre la parola fine al suo matrimonio con Marianne, ma non alla loro storia, destinata a nuovi incontri e nuovi capitoli, come due rette magnetiche che mai riusciranno a scorrere parallele, ma a furia di attrarsi non possono che periodicamente incontrarsi. Dopo pochi anni, nel sesto e ultimo episodio di Scene di un matrimonio fatto di case, incubi notturni e inspiegabile tenerezza, e poi di nuovo dopo trent’anni di silenzio, in quella Sarabanda di sentimenti ed emozioni nella quale Marianne sarà osservatrice di altre scene da un altro matrimonio finito con la malattia e con la morte, con il dolore e con l’amarezza, con il ricordo e con il rimpianto, con Johan diventato ricco e ormai nonno, con suo figlio Henrik padre della giovane Karin e del suo talento come violoncellista. Ma questa è un’altra storia, è un altro film, è un altro momento delle stesse vite. È un altro capolavoro, forse ancora maggiore, di acume, di profondità e di quasi insostenibile strazio. To be continued

Marco Romagna