SAYONARA (2015), di Koji Fukada

Sayonara è prima di tutto un futuro imprecisato che è anche passato e drammatico presente; Sayonara è l’ultimo addio delle zone più vicine a Fukushima, quelle più esposte alle radiazioni di un disastro paragonabile solo a quello di Černobyl’; Sayonara sono i malati terminali a causa della tempesta radioattiva, le vittime innocenti condannate da un reattore a sperare invano nelll’evacuazione come illusione di salvezza e nel frattempo destinate a soffrire e morire, riportando in auge i fantasmi forse mai sopiti di Hiroshima e Nagasaki. Ma lì era stato l’uomo, era la guerra, erano le bombe, questa volta è stata la natura a riprendersi parte dei propri spazi e della propria indipendenza. Come in una sorta di (probabilmente inconsapevole) controcampo dello splendido The Whispering Star di Sion Sono, anche Koji Fukada lascia che la fantascienza si insinui dolcemente nelle distese ormai semideserte intorno a Fukushima, mettendo in scena una distopia di sconcertante attualità che umanizza il robot e piange l’uomo, parlando di rifugiati, di lotterie governative truccate (ben più che una frecciata a Shinzo Abe e al suo governo destrorso e autoritario), di isteria popolare, di vittime e carnefici, di rifugiati e di sensi di colpa, di realtà distorta e di mutazioni del corpo e della natura. Ma non c’è disperazione, nel film di Fukada, quanto piuttosto una viva e serena rassegnazione, nella speranza di vivere al meglio gli ultimi sgoccioli della propria vita.
Tanya è una bianca sudafricana, già rifugiata in Giappone dopo la fine dell’apartheid e le violente rappresaglie delle genti di colore. Ora sta morendo, malata terminale a causa delle radiazioni, in attesa di un’evacuazione che non arriverà mai, mentre le autorità danno la precedenza ad autoctoni giapponesi, preferibilmente raccomandati e paganti, lasciando deliberatamente morire i cittadini stranieri. Leona è il suo androide, in sedia a rotelle per una (non certo a caso umanissima) rottura, robot antropomorfo con il quale Fukada riscrive il rapporto fra l’uomo e il cyborg. Le due protagoniste vivono una vera e propria amicizia, fatta di sincerità, confidenze e prendersi cura l’una dell’altra. In una babele linguistica che va dal giapponese all’inglese al francese le due sconfiggono l’incomunicabilità del mondo, sorridono, si intristiscono, migliorano, imparano vicendevolmente: Tanya si fa rendere edotta dal robot di nozioni e poesie, Leona apprende dall’umana le emozioni, la paura della morte, il deperimento del corpo, per incamerarle, imparare a viverle e non dimenticarle mai più.

Dove Sion Sono aveva scelto, in The Whispering Star, le farfalle all’interno della plafoniera per rappresentare quanto la vita possa essere breve e sfuggente, ma comunque abile a insinuarsi nelle fessure più strette, Koji Fukada in Sayonara lascia funzione analoga alla vasca di pesci rossi: anche loro colpiti dalle radiazioni, anche loro in fin di vita, anche loro in più o meno rapida mutazione. Come Tanya, che sogna il matrimonio come voglia di libertà, per non morire da sola, ma sarà ben presto abbandonata da un promesso sposo evacuato con l’intera famiglia; come Leona, robot a cui non funzionano più le gambe, costretta a ricaricarsi esponendosi all’aria radioattiva e nel frattempo sempre più umana, in grado di comprendere e vivere tutto il nostro struggimento emotivo. Ma c’è anche un altro personaggio estremamente importante, simbolo del giapponese respinto dal suo stesso Paese nel momento del bisogno, quando i contrasti etnici esistono anche in famiglia. Si tratta di un’altra donna, amica di Tanya, che si rivela colpevole di avere ucciso -viene dato a intuire per sbaglio- il proprio figlio parecchi anni prima. Ecco quindi un’altra vittima delle radiazioni che non avrà mai l’evacuazione, condannata da un errore passato per il quale aveva già pagato, proprio come Tanya, che si sente colpevole in quanto bianca in Sudafrica durante l’apartheid, ma poi vittima prima in Sudafrica con la casa in fiamme e ora in Giappone, il Paese che l’ha accolta. È ormai una donna senza terra, una figlia di nessuno. Fukada dà risalto al suo ruolo di doppia rifugiata, alla sua vita sempre in fuga da qualcosa di più grande e irreversibile, alla sua voglia di vivere frustrata dalle circostanze di ogni parte del mondo.
Se non fosse per un androide -comunque mai così umano e, va detto, magistralmente interpretato da un vero robot, il Geminoid F messo a punto dall’università di Osaka- e per uno strano telefono cellulare che viene tirato fuori a un certo punto, sarebbe difficile classificare Sayonara come un film di fantascienza, tanti sono i collegamenti con il presente, con la “vera” realtà post-atomica, con le repressive (spesso oltre il confine del razzismo) attuali politiche nipponiche. Memore della lezione di Andrej Tarkovskij, Fukada tratta la (fanta)realtà come se fosse sorta di proiezione distorta, e lo testimonia con la lente distorcente à la Sokurov utilizzata per seguire Tanya in quella che, accompagnata dalla fedele Leona, sarà la sua ultima passeggiata. Ma non dimentica di inserire nel film diversi richiami poetici, che si rivelano a metà fra una speranza e il monito: da una parte, l’illusione di Tanya che immagina impossibili fiori rossi sui bambù, dall’altra questi fiori impossibili che sul finale iniziano a sbocciare, simbolo di vita ma anche di mutazione della natura che si riprende il proprio territorio, però modificata, probabilmente per sempre. Come pure è estremamente poetica la fase dei ricordi, con una proiezione che dal muro davanti ai personaggi passa al corpo, lo illumina, riportando alla memoria il capitale The Man Who Left His Will On Film di Nagisa Oshima. Sayonara è un film di spazi sterminati, di incomunicabilità che diventa intima emozione, di serena rassegnazione che assurge a pace, in un mondo che inevitabilmente muta ma che nonostante tutto procede ancora. Non rimane che soffermarsi sulla morte di Tanya, sul deperimento del suo corpo che si sfalda sotto gli occhi di Leona, sulla decomposizione della carne che tanto contrasta con il paesaggio immacolato che traspare dalla finestra. Tanya muore e quasi sparisce fra le amorevoli e lacrimose carezze dell’androide, condannato a un’immortalità fittizia, rotto per usura e con i vestiti ormai sporchi e laceri: il robot è umano, l’uomo è morto. Evviva l’uomo! Sayonara

Marco Romagna