È ancora la volta la perdita di una madre, il grande trauma fuori campo da cui si dipana il cinema di pupazzi animati in passo uno dello svizzero Claude Barras. In un’opera seconda, Sauvages!, che giunge a confermare un talento fra i più interessanti dell’intero panorama d’animazione mondiale, spostando il suo immaginario dal minimalismo dell’orfanotrofio dello straordinario esordio Ma vie de Courgette, realizzato a partire da una sceneggiatura di Céline Sciamma fatta dei movimenti quasi impercettibili delle giovani anime che scoprono i primi sentimenti, giù fino al sud-est asiatico e allo spirito ambientalista e barricadero della foresta del Borneo da difendere dalle ruspe, per strizzare maggiormente l’occhio ai target più giovani con la trama d’avventura e con la (relativa) semplicità dei messaggi antirazzisti ed ecologisti, ma al contempo continuare a raccontare tematiche assolutamente “adulte” di bambini (e magari in questo caso anche animali) rimasti orfani e di un forsennato bisogno d’affetto, di emozioni purissime e di senso della giustizia, di scelte anche radicali da compiere in fretta e di percorsi al termine dei quali scoprirsi finalmente cresciuti, definitivamente pronti per affrontare faccia a faccia le ingiustizie della vita. Perfino la morte è sin da subito palpabile, nei colpi dei fucili dei guardiani della piantagione e nel dettaglio della mano di quella mamma orango che cade senza vita a terra di fronte agli occhi del suo piccolo, ma anche nell’assenza di quella della piccola Keria che, insieme al padre, porterà a casa il cucciolo per iniziare ad accudirlo. Scritto questa volta dallo stesso Barras insieme a Catherine Paillé già collaboratrice fra gli altri di Léa Fehner e Guillame Brac (oltre che di Kiyoshi Kurosawa nel suo unico “francese” Daguerrotype – Le secret de la chambre noire), Sauvages! inizia parafrasando gli Indiani d’America che non hanno ereditato la terra dai padri ma l’hanno presa in prestito dai figli e, in un’avventura che fra biodiversità, ruolo di ogni specie (e quindi di ogni cultura) nell’ecosistema (e quindi nel mondo) e perfidi speculatori garantiti da un governo corrotto si spingerà fino ai limiti dell’ecoterrorismo, farà trovare a poco a poco alla sua piccola protagonista le tappe di un proprio romanzo di formazione attraverso cui metabolizzare la mancanza, (ri)scoprire la propria identità personale e familiare nelle radici di una tradizione antichissima, sentire emergere naturalmente la propria dignità e il proprio coraggio, trovare (e far ritrovare al padre) la libertà dai ricatti socioeconomici del mondo. Passando, lei che nella foresta da sola mai nemmeno aveva messo piede, e che sulle prime prova invano a tornare a casa facendo perdere il GPS del suo cellulare, per il ramo indigeno e tutto da scoprire della propria famiglia, ma soprattutto per la presa di coscienza dell’urgenza dell’impegno ecologista, dell’attivismo sul campo, delle proteste, dei sit-in, dei sabotaggi. Dell’obbligatorietà – a volte, quando la posta in gioco è troppo più grande e troppo più urgente, quando bisogna in qualche modo difendersi per non diventare l’ennesimo cadavere “caduto” nel fiume – di rispondere alla violenza con altra violenza, o per lo meno con una minaccia che sappia fare paura. Un film realizzato nel giro di sette anni di pazienza e di costanza in una confezione tecnica di co-produzione franco-svizzero-belga forse ancor più impeccabile di quella dell’esordio, plasmando a mano e fotografando ventiquattro volte al secondo, con fluidità pressoché perfetta, ogni singolo movimento dei burattini, ogni singola lama di luce e di strabordante espressività che emerge dai loro occhi di vetro e dai loro sorrisi, ogni singolo dettaglio dei fondali e dei tanti animali che popolano la foresta. Ogni singola presa di coscienza dei personaggi di quella che ben presto diventa una vera e propria lotta politica contro il sistema e le derive neocoloniali del capitalismo, incontro di culture e di generazioni impegnate in un atto di resistenza contro un danno potenzialmente incalcolabile al pianeta. Del resto, chi sono i “selvaggi” del titolo? Gli indigeni penan che fra lance, cerbottane e grandi numi tutelari vivono liberi e scalzi la loro vita orgogliosamente arcaica e di comunione con la Natura oppure, molto più probabilmente, quell’altro lato del fiume che si dice “civilizzato” ma che nel nome del «progresso», protetto dalle leggi e dal governo, vive schiavo del denaro e delle mode del momento mentre distrugge loro e la loro terra prevaricandoli con la violenza, con il ricatto, con la cinica ed esibita negazione di diritti che dovrebbero essere inalienabili?
Da una parte gli antenati, la caccia, le leggende più antiche, «i segreti più profondi della foresta» in un magnifico intreccio di liane e radici in plastilina, e poi le erbe curative con cui nemmeno i morsi di serpente fanno più paura, la semplicità del ripararsi dal temporale con una foglia, le identificazioni con gli spiriti-guida degli animali ognuno con il loro posto nel mondo e nella catena alimentare. Dall’altra un mondo moderno, tecnologico, bianco, che parla lingue occidentali e che si muove nelle economie di mercato, e che magari si sente investito da un’aura di superiorità culturale al punto da guardare agli aborigeni come fossero dei «Neanderthal» mentre con i bulldozer e con i fucili distrugge un intero ecosistema polmone fondamentale dell’intero pianeta. Un mondo nel quale Keria, nonostante la sua origine indigena, è stata cresciuta per proteggerla dal destino di lotta e di sacrificio di chi non ha diritti e non si piega agli abusi del potere, eppure le basteranno pochi giorni e pochi incontri per ritrovare la sua strada, la sua appartenenza, il suo diritto di nascita, la sua identificazione nella madre «libera e selvaggia» e nella medesima pantera, la sua identità familiare di attivismo politico. E poi un’orribile verità che non le era mai stata detta, ma anche la profondità dei motivi per cui, necessariamente, non le era stata (ancora) detta. Forzature, omissioni e menzogne usate come un cuscino per ripararla nella sua crescita e nel suo quieto vivere, non per codardia ma anzi come estremo sacrificio (degli ideali, di una vita, di un’identità, di un’appartenenza, di una condivisione) per puro amore da parte di un padre che aveva già perso la moglie, anni di libertà e ogni possibile fede nella giustizia. Eppure non è un caso che, nella narrazione di Barras, la risoluzione definitiva arriverà proprio da fuori, dal moderno, dalla tecnologia: dall’indignazione social e dalle proteste in giro per il resto del mondo. Come a dire che per scegliere la parte giusta da cui stare non bisogna necessariamente fare come l’attivista inglese venuta anni prima per studiare la foresta e rimasta a vivere fra i penan e come i penan per mettersi a supporto della loro causa – «Noi siamo la Natura che si difende», fra libellule, rospi, scimmie, pantere, tassi, cinghiali, lucciole e sanguisughe. Quello che serve è aprire gli occhi, è la cooperazione, è la reciproca accettazione fra differenti culture come parti di un tutto più complesso, e poi è la coscienza individuale che impone di fare delle scelte. «I soldi non si mangiano», verrà apertamente detto dagli indigeni per rifiutare la ricca offerta della compagnia straniera che vuole acquistare le terre per poter procedere con l’irreparabile disboscamento. Anche se è la compagnia, e non loro, ad avere i documenti in regola, i (pur corrotti) permessi ministeriali, il diritto legale di sfruttare quelle terre e il cinismo sufficiente per farlo. Gli indigeni nemmeno possono fare ricorso in tribunale, senza certificati di cittadinanza e quindi senza voce in capitolo. Possono solo lottare, sabotare, resistere, rischiare tutto ciò che è necessario per evitare la barbarie. A costo di commettere qualche errore tattico in buona fede e magari di trovare la soluzione quando tutti gli altri l’avrebbero pensata controproducente: quello che conta è il fine più grande, quello che conta è non mollare, quello che conta è esserci per salvare e per essere salvati. “Selvaggi” che nella loro cultura si rivelano molto più saggi e profondi di una supposta civiltà che sa dimostrarsi in realtà ben più selvaggia, spietata e crudele di quanto lo possano mai e poi mai essere loro, ma che per fortuna è anche ben più stratificata e multiforme di un mero dualismo di buoni e cattivi, potenzialmente ancora salvifica se bene informata, ancora permeabile e ancora viva. Poi sì, magari nel guardare a tematiche miyazakiane da qualche parte fra (l’imparagonabile capolavoro) Nausicaä della Valle del Vento e il “nostrano” Yaya e Lennie – The Walking Liberty non manca forse qua e là qualcosina di retorico o di eccessivamente semplificato, ma finisce per sparire nella perfezione tecnica dello stop motion di Claude Barras, nella certosina e coloratissima composizione a più livelli in profondità di campo di ogni inquadratura, nella sorprendente fluidità dei movimenti di corpi e bocche, nella sconcertante espressività emotiva dei burattini. Nella capacità di porsi ad altezza infante per parlare, a più livelli, realmente a tutti, di tutte le età. È per questo che semmai fa un po’ rabbia pensare a come il Festival di Cannes, promuovendo sì Claude Barras alla selezione ufficiale numero 77 dopo la Quinzaine di Courgette, ma solo come Séances spéciales Jeune Public, dichiari di fatto di considerare Sauvages! semplicemente un film per bambini. Ma il diffuso e incomprensibile pregiudizio del mondo cinefilo e festivaliero verso “i cartoni animati”, per fortuna, è un’altra storia. E no, non basta assegnare una (doverosa) Palma d’Onore allo Studio Ghibli per avere la coscienza a posto. Ma non è questo il momento per parlarne. Adesso è solo il momento di applaudire.
Marco Romagna