SATOSHI: A MOVE FOR TOMORROW (2016), di Yoshitaka Mori
Il gioco degli scacchi, di per sé, è già un paradigma e un portatore di valori. Lo è per la sua stessa difficoltà, per la viva intelligenza che richiede, per l’applicazione necessaria a imparare a sviluppare le strategie vincenti, per la necessità di saper prevedere le mosse dell’avversario e di stupirlo con un pezzo spostato a sorpresa. È un gioco fatto di non molte regole, ma ferree, e di infinite combinazioni, nelle quali è l’intuizione di uno dei due giocatori, la sua creatività, a decidere l’esito della partita, ma buona parte fa anche la sua memoria nel tenere a mente un campionario elefantiaco di partite già giocate e di possibili attacchi. È un gioco di testa, di gestione della pressione quando il tempo inizia a scarseggiare, di affondi e di difese: è una vera e propria guerra, nella quale tutti i pezzi sono a disposizione del re, e sta alla mano e alla mente di chi li muove difendere il proprio e nel frattempo mettere in scacco quello avversario. Anche e soprattutto nella sua variante giapponese, quello shogi giocato con i pezzi a forma di freccia il cui valore è stabilito dall’ideogramma inciso sul dorso, quello shogi fatto di pezzi mangiati, di pezzi promossi e di pezzi paracadutati, quello shogi forse ancora più complesso rispetto agli scacchi, ancora più strategico, ancora più totalizzante.
Già, totalizzante, nei suoi enormi centri shogi in giro per il Giappone, nelle videocamere piazzate sopra le scacchiere mentre nelle altre stanze tutti studiano la partita fra i maestri, nella necessità di abbandonare tutto il resto, e forse anche la vita, per concentrarsi solo ed esclusivamente sul gioco, come sottolineato dai montaggi alternati che fra una mossa e l’altra propongono brandelli di vita esterna in slow motion – il mercato, il ristorante –, come se lo shogi fosse una sorta di mondo parallelo, asfittico nella sua negazione di una normale esistenza, ma forse anche l’unico modo per sentirsi davvero vivi, come le unghie lasciate crescere, come i capelli fluenti. Di questo parla Satoshi: a move for tomorrow, opera terza del regista giapponese Yoshitaka Mori che giunge in anteprima europea al diciannovesimo Far East Film Festival di Udine, innestando nel biopic del giocatore professionista Satoshi Murayama un cortocircuito in cui il corpo e la mente non dialogano più, ma è come se si facessero dispetti a vicenda, da un lato la genialità, la passione e l’impegno assoluto del protagonista verso lo shogi che lo portano a una totale trascuratezza nei confronti del proprio fisico debilitato, non curato, ingrassato, alcoolizzato e nutrito con sole schifezze, dall’altro una salute precaria come nemico invisibile e potente, contro il quale forse non esiste reale possibilità di vittoria, ma si può solo combattere fino alla fine per poi, immancabilmente, pronunciare fra i denti “Ho perso”, fare un inchino al proprio avversario e accettare in silenzio la propria sconfitta. Un’usanza propria dello shogi nella quale fa capolino la cultura samurai, con l’interruzione della partita una mossa prima della sua inevitabile conclusione per non subire l’onta del proprio re in scacco. È l’harakiri di chi non può che arrendersi, ma nemmeno contro un nemico più forte rinuncia alla propria più profonda e nipponica dignità.
Quella di Satoshi Murayama, tratta dal romanzo biografico di Yoshio Ohsaki, è stata una scalata fino all’Olimpo dello shogi con le ripetute sfide al campionissimo Habu, brutalmente interrotta da quegli stessi limiti fisici che l’avevano alimentata. È il paradosso di una passione per il gioco nata da bambino a causa dei suoi handicap da sindrome nefrosica destinati a provocargli per tutta la vita malesseri e febbre alta, e proprio da quegli stessi handicap resa estenuante e difficoltosa fra sanguinamenti improvvisi e sudori freddi, fino all’orrore dello stoma per le urine dopo l’asportazione della vescica. Inutile, al di là di qualche mese di vita in più, perché sarà ancora il corpo, sotto la forma del cancro che lo ha consumato e portato via a soli 29 anni, a stroncare la mente e la carriera di uno dei più grandi giocatori di sempre, a metterlo in scacco nella partita più importante. Satoshi: a move for tomorrow è il rifiuto della realtà per abbracciare una realtà-altra, fatta di shogi e di mali trascurati, fatta di manga, di vino e di noodles in scatola come uniche possibili evasioni dai propri dolori e dalla propria intima depressione. Più volte, durante il film, Murayama – interpretato da uno sfavillante Kenichi Matsuyama disposto, à la De Niro, a ingrassare di oltre 25 chili per il ruolo – si chiede quale sia il reale motivo per il quale è nata la sua passione così totalizzante per lo shogi, sapendo benissimo la risposta ma senza riuscire ad ammettere il ruolo determinante avuto dalla sua disabilità nelle condizioni di salute. Nemmeno dopo aver sconfitto per la prima volta Habu, quando lo inviterà a cena scoprendo quanti punti abbiano in realtà in comune i due nerd, riuscirà realmente ad affrontare di petto ciò che lo stava consumando: parlerà della sua voglia impossibile di avere una donna e una famiglia, parlerà delle lunghe partite da bambino, parlerà di se stesso, ma mai della sua malattia, in un certo senso rifiutata anche di fronte alle diagnosi mediche con l’iniziale diniego a farsi operare “perché l’anestesia annebbia la mente”. Una decisione sulla quale Murayama riuscirà a ritornare solo di fronte alle lacrime di una madre che lo guarda come egoista, ma subito dopo, sostituendo la scacchiera ai farmaci per la chemioterapia, non potrà che tornare alla sua passione, al suo talento, alla sua missione da portare avanti fino alla fine.
Satoshi: a move for tomorrow è un’ascesa e declino, in cui però le due fasi non sono successive, ma contemporanee, in una sorta di proporzionalità inversa nella quale allo sviluppo della mente deve giocoforza corrispondere una progressiva distruzione fisica, dove il successo nel gioco si sovrappone al decadimento del corpo. Satoshi Murayama era un genio, nato per questa sorta di ibrido fra gioco da tavolo, sport e strategia quasi militare, talmente superiore ai giocatori “normali” da non guardare nemmeno le loro mosse, previste già da chissà quanto tempo dal campione di Osaka. Eppure, nella sua lucidissima follia nel muovere i pezzi, il gioco dello shogi è stato per lui ragione di vita ma anche massima sofferenza, fisica e mentale, personale e sociale. Fino al rifiuto definitivo della vita e della vitalità, al taglio simbolico di unghie e capelli, alla volontà di “liberarsi di Dio”. Il film di Mori, partendo dalla prima mossa del primo torneo di grado 7, disputato da Murayama nel 1994, e procedendo fino alla sua morte, lasciata intelligentemente fuori campo, nel ’98, aprendo a flashback e voci off che accompagnano il protagonista nella sua (in ambedue le valenze del termine) passione sin dalla primissima infanzia, racconta di come il decadimento fisico abbia fatto retrocedere il giocatore dalla prima alla seconda classe, ma anche di come nei pochi mesi che gli restavano da vivere si sia riguadagnato, prima della morte, gli onori a suon di partite e di vittorie ancora contro Habu, fino al ritorno alla prima classe e al raggiungimento del nono grado, il massimo, fra i maestri shogi: è una storia esemplare di abnegazione e di sfida anche alla sconfitta, è la bellezza della/nella caducità di una vita brillante quanto sofferente e troppo breve. In un’efficace alternanza di suspense garantita dal gioco, di dramma personale, fisico ed esistenziale capace di non sconfinare mai nel patetico del giocatore malato e di interludi che strizzano l’occhio a una comicità intelligente – la ricerca della casa a Tokyo, e poi il successivo stacco sull'”arredamento” composto da soli manga e scatoloni nella totale confusione nella vita che si contrappone alla precisione sulla scacchiera –, la vita di Satoshi Murayama viene condita dei riflessi epici dell’antieroe e di umanità, ponendosi come perfetto esempio di vita consacrata a una passione e come interessante oggetto filmico che trasuda cultura giapponese da ogni sua stratificazione psicologica e concettuale. Sono pezzi sulla scacchiera, come brandelli di una passione assoluta, totalizzante, leggendaria, nobilitante quanto (auto)distruttiva. Fino allo scacco matto al re.
Marco Romagna