Abbiamo già più volte parlato di come l’animazione francese si sia ormai da tempo posta come un terzo e fondamentale polo da affiancare a quello statunitense dei cartoon e a quello giapponese degli anime, e di come in particolare al suo interno, in un mondo che, nelle svariate possibilità tecniche, alla pazienza della china e alla fatica dei rotoscopi tende ormai a preferire sempre più la maggiore rapidità dell’animazione 3D in computer grafica, stia vivendo una seconda giovinezza l’animazione tradizionale, quella fatta di lucidi e di disegni a mano. Fra i gioiellini firmati con tratto che guarda a Braque da parte del duo Gagnol-Felicioli, prima Un gatto a Parigi e poi l’ancora più soprendente Phantom Boy, e il Sébastien Laudenbach del capitale e pulsante La jeune fille sans mains1, l’animazione tradizionale sta ritrovando in Francia una vera e propria età dell’oro, della quale l’esordio alla regia per l’animatore di lungo corso Rémy Chayé, già stretto collaboratore di Jean-François Laguionie (L’île de Black Mór, Le stagioni di Louise) fino ai tempi di Le Tableau, è uno degli ultimi e più fulgidi esempi. Co-prodotto dalla Danimarca, Tout en haut du monde, in questi giorni in sala in Italia con il titolo Sasha e il Polo Nord, è animato con un tratto senza tratto, privo o quasi di contorni, lasciando che siano i colori a riempire lo schermo, a dare vita ai personaggi e ai loro sogni, a sprigionare la loro voglia di avventura. Ad arrangiarsi, perché quando il richiamo del mare è troppo forte, e in ballo c’è l’onore della famiglia e dell’amatissimo nonno esploratore, anche una rampolla aristocratica può annullare ogni classe sociale e viaggiare in treno senza biglietto, dormire per strada, lavorare nelle più dure locande sul porto in attesa di poter partire e compiere il proprio destino. Fino al ghiaccio, al bianco assoluto, al candore di chi è puro di cuore.
Sasha e il Polo Nord è un mappamondo al quale puntare una bandiera sulla cima, è una passione che diventa ossessione, è una ragione di vita. Di due vite, quella del nonno Oloukine mai tornato dall’ultima spedizione, quella di Sasha, lo stesso carattere, la stessa viva passione, la stessa coriacea ostinazione ai limiti dell’insolenza, la stessa voglia di scoprire, conquistare, riuscire. Sasha, quindicenne e quindi ormai in età da ballo e da marito nella San Pietroburgo zarista di fine Ottocento, sfugge al destino imposto dai genitori per vivere fino in fondo quello imposto dalla propria natura, da quella vocazione ereditata dal nonno, sicuro che la nipote lo avrebbe prima o poi raggiunto nel suo sogno. Bisogna ritrovare la nave, non per guadagnare la gran copia di rubli messa a disposizione dallo Zar, ma per salvare l’onore di una famiglia che, a causa delle “stranezze” del nonno, viene ormai bistrattata dalla società aristocratica. Sasha e il Polo Nord è un perfetto romanzo d’avventura, fatto di viaggi per mare e di dinamite per rompere la banchina, fatto di iceberg che si staccano, affondamenti, capitani feriti, orsi bianchi e vite salvate a vicenda, in pieno spirito marinaresco, in pieno spirito da esploratori. Ma, da buon perfetto romanzo di avventura, non tutto è semplice nella formazione di Sasha: c’è la “sfortuna” portata dalle donne in mare, c’è la diffidenza dei lupi di mare verso una giovane, ci sono inganni, orecchini persi al gioco e rischi di ammutinamenti, e c’è anche un’attrazione (im)possibile, con quelle labbra che finalmente si sfiorano non per un bacio, ma per una respirazione bocca a bocca.
Sasha e il Polo Nord, nel suo porsi come intrattenimento purissimo per bambini che non disdegna qualche stratificazione sociale e politica nei rapporti umani destinata ai loro genitori (alla fin fine, l’avventura di Sasha nient’altro è che un atto di ribellione verso la rigidità della Russia dello Zar nemmeno troppi anni prima della Rivoluzione d’Ottobre), né un addio commovente a quel nonno morto felice, è un percorso di crescita, è una ragione del cuore. È il diario di bordo regalato dal nonno alla nipote come ultima missione, ultimissimo momento di soddisfazione prima di poter andare via felice, alla deriva, bloccato in un glaciale sorriso, conscio di aver dato un senso compiuto alla propria vita, di aver piantato la bandiera, di aver raggiunto il tetto del mondo. E non basterà certo un soffio di vento per cancellare la sua impresa. Chayé lavora su ogni tavola con cura, lasciando esplodere una predominanza di campi lunghi e coloratissimi nel movimento delle figure, ma senza disdegnare dettagli anche strettissimi sugli sguardi e sui cambiamenti progressivi di Sasha, dall’aristocrazia alla sveglia alle 5 per lavorare, dalla cabina di quarantena alla camerata della nave. Bisogna fare impazzire l’ago della bussola, arrivare nel punto zenitale, quello in cui nord e sud non hanno più senso. Bisogna seguire i propri sogni, sempre, lottando fino in fondo perché diventino realtà, avventura, storia. Come il diario di bordo stretto al petto durante il viaggio di ritorno, l’ultimo lascito del più grande affetto, la prova della sua grandezza e del suo sogno coronato: il Polo Nord, sul tetto del mondo. Come il cinema d’animazione francese di questi anni.
Marco Romagna