«Lavoratori della mia patria: in questo momento conclusivo, l’ultimo in cui posso rivolgermi a voi. Ho fede nel Cile e nel suo destino. Altri uomini supereranno questo momento grigio e amaro in cui il tradimento pretende di imporsi. Sappiate che, molto prima di quanto si pendi, si apriranno nuovamente i grandi viali dove passerà l’uomo libero, per costruire una società migliore. Viva il Cile! Viva il Popolo! Viva i lavoratori! Queste sono le mie ultime parole, e sono certo che il mio sacrificio non sarà vano»
Salvador Allende, ultimo discorso alla radio
La democrazia è una grande illusione. È un qualcosa che funziona solo fino a quando esprime ciò che vuole anche chi realmente detiene il potere e la forza, fino a quando non si mette d’ostacolo agli affari e al capitalismo. A quel punto, ed è la Storia ad averlo chiaramente espresso più e più volte quasi sempre nel sangue, la democrazia non esiste più, diventa un velo da squarciare, diventa un qualcosa da sospendere e magari abolire, diventa la vittima sacrificale dei disegni internazionali e militari, e con lei diventa vittima sacrificale anche quel popolo che per la “colpa” di averla esercitata si ritrova torturato e ucciso, sbalzato di colpo dalla libertà alla dittatura militare, dalla gioia della pace e della giustizia sociale alla paura e alla guerra perpetue. Di certo agli Stati Uniti nixoniani del 1970, impegnati senza successo a finanziare la sua opposizione, non aveva fatto piacere l’elezione democratica in Cile di Salvador Allende, primo rivoluzionario non violento giunto al palazzo governativo della Moneda senza aver vinto battaglie e senza derive dittatoriali ma sospinto dal convinto sostegno popolare, e ancor meno avevano fatto piacere le sue politiche marxiste di nazionalizzazione delle risorse per poter garantire alfabetizzazione e sanità gratuita a ogni cileno, senza versare nemmeno un centesimo di indennizzo a quegli USA neocolonialisti che le avevano sfruttate per tanti anni.
Ma a Santiago, Italia, nuovo, lucido, acuto, ideologico e amarissimo lavoro di Nanni Moretti che chiude il 36mo Torino Film Festival pochi giorni prima dell’uscita nelle sale, interessa molto relativamente il (probabile) coinvolgimento per lo meno economico statunitense dietro al colpo di Stato cileno dell’11 settembre 1973, e più in generale nemmeno gli atroci eventi di Santiago, che vengono rievocati con precisione nei loro 3000 morti e oltre 30mila torturati ma senza in realtà voler aggiungere nulla dal punto di vista storico alle vicende già note (per quello, e Moretti ne è pienamente consapevole, ci sono già gli straordinari film di Patricio Guzmán e di Miguel Littín, che a quel trauma hanno consacrato le loro intere carriere e che ora appaiono immancabili e necessari fra i volti e le voci intervistate), sono il vero punto del film. Parallelo al binario della memoria, infatti, scorre ed emerge nell’ultima sezione come vero cuore dell’operazione morettiana quello che attraverso il Cile guarda all’Italia di ieri e di oggi: come eravamo e come siamo diventati. Non solo a livello politico, ma a livello sociale, popolare, morale, umano.
Eravamo un’Italia post-bellica, socialdemocratica, antifascista e ancora ben salda nella sua memoria partigiana. Eravamo un’Italia accogliente e ospitale, che credeva nella reciproca collaborazione e nella dialettica, che credeva nei valori dell’umano, che sapeva “sentire” l’altro. Prima con i diplomatici in Cile che permettevano a tutti i comunisti e agli oppositori perseguitati da Pinochet di saltare il basso muro di cinta per entrare in ambasciata rinunciando di fatto al proprio Paese ma avendo salva la vita, e poi qui, nella rossa Emilia come nelle campagne, a Milano come a Roma, con la brava gente comune incredula e indignata di fronte alla barbarie del golpe e disposta a dare rifugio e lavoro agli esuli cileni, ben felice di integrare appieno e aiutare in qualsiasi modo chi era stato considerato un nemico e calpestato dal proprio stesso governo, rifiutato e represso dalla propria terra. Quarantacinque anni dopo siamo diventati un’Italia sempre più imbarbarita, chiusa, ignorante, xenofoba, inospitale, liberticida, egoista, sadica, fascistoide nell’indole. Un’Italia ormai soffocata nella sua umanità dalle gabbie del capitale, da chi realmente detiene il potere, da chi può sospendere – dalla scuola Diaz in poi, passando per i morti di Stato, per le ripetute aggressioni a chi ha la pelle più scura e per le navi di migranti respinte1 – la democrazia. E il ricordo del Cile acquisisce così, nella costruzione morettiana di un’Italia etica, politica e strabordante di valori umani e combattenti che non esiste più, il senso inedito e agghiacciante di monito, graffiante e sempre più urgente, per il nostro futuro.
C’è un evidente parallelismo fra i rifugiati di ieri e quelli di oggi, così come c’è un evidente parallelismo fra il Cile pre-Golpe e l’Italia di oggi. Ma il vero discorso politico di Santiago, Italia è umano, di testimonianze e di (dis)valori popolari, di ricordi personali e di italico imbarbarimento. In uno straordinario lavoro di montaggio capace di costruire un’unica testimonianza a più voci, le interviste frontali del regista mettono al centro gli uomini e le donne, persone ben prima che testimoni. Con le loro voci e con i loro sguardi, con la loro razionalità a tratti ancora interrotta dalla partecipazione, con il loro vissuto che riemerge sulla pelle dal fondo delle anime. Rinfrescano la memoria su come la disinformazione di destra, con il suo controllo dei media, cercasse già al tempo delle elezioni di dipingere un Paese che era all’apice democratico, sociale e umano della sua (e probabilmente anche nostra) Storia come gestito da un malgoverno che lo avrebbe trascinato nel baratro. Ricordano la Moneda bombardata dall’esercito cileno, attacco più unico che raro dell’esercito di un Paese contro il suo palazzo presidenziale. Ancora si commuovono pensando all’ultimo discorso alla radio del Compagno Presidente, e mai hanno accettato quelle immagini del corpo di Allende – poco importa se si sia trattato di omicidio o di indotto suicidio per non cadere nelle mani dei congiurati di Augusto Pinochet, sempre degli stessi sarebbe la colpa – portato via in ambulanza ormai quasi privo del volto proprio mentre in Cile si instaurava la Giunta militare che, fra ordini di coprifuoco e brutali repressioni, durerà fino al 1990.
Ben ricordano le torture subite, gli intervistati. Ben ricordano le reti del letto trasformate in scariche elettriche lungo tutto il corpo, il cinismo della torturatrice incinta pronta a obbligare le vittime che potrebbe uccidere da un momento all’altro a insegnarle a lavorare a maglia, oppure quello dei soldati che commentavano i morti già in strada e i suicidi come «lavoro risparmiato». E anche quando la palla passa alle due voci che stanno dall’altra parte, ex-militari che ancora parlano di pericolo comunista e di necessità dell’intervento per quanto brutale, il discorso di Nanni Moretti rimane il medesimo. Un discorso che, in una delle uniche due apparizioni fisiche di fronte alla macchina da presa, si fa dichiaratamente «non imparziale», ma esattamente al contrario consapevole e ideologico, di parte, politico, militante, perché non si può rimanere imparziale di fronti a un evento di questa portata. È necessario prendere una posizione e portarla avanti, ben consapevoli che l’uomo che si ha di fronte e che ora blatera le solite scuse invocando equidistanza ha torturato e ucciso, ha bombardato il legittimo Presidente asserragliato nel Palazzo in uno dei più gravi tradimenti militari di cui ci sia memoria, ha cercato e perseguitato dissidenti, ha contribuito a rinfocolare la paura, il terrore e la devastazione.
Qualcuno parla in italiano ormai quasi senza inflessioni, qualcuno parla un perfetto italiano ma è orgoglioso di ostentare ancora il suo accento sudamericano, mentre qualcun altro è tornato allo spagnolo, lingua con cui è nato, ma capisce alla perfezione gli interventi e le domande di Moretti. Di fronte alla macchina da presa del regista di Brunico si alternano avvocati e traduttori, medici e giornalisti, artigiani e imprenditori, diplomatici e artisti. Ricostruiscono la Storia, raccontano la propria esperienza, tutti degli orrori visti e subiti, e poi il loro rapporto con l’Italia, il Paese che li ha saputi salvare e accogliere, il Paese che li ha accettati, aiutati e integrati. Ricordano la salvezza nell’ambasciata italiana con il giardiniere che faceva segno di scavalcare il muro trovando il luogo sicuro, la sostanziale comune di rifugiati nelle stanze del palazzo diplomatico, e poi il viaggio verso una nuova vita nel Belpaese, con tutto il calore che un intero Popolo gli ha saputo dimostrare. Il Popolo del ’73, coscienzioso e umano abitante di un Paese al tempo reale e ormai utopistico, profondo nella sua coscienza politica e nei valori, , basato sull’umanità e sul reciproco rispetto, sulla comprensione e sulla lotta comune, sugli ideali e sulla pietà, fatto di uomini empatici, solidali, maturi, coscienti. Dei quali ora, in questa “serva Italia” imbarbarita, nuovamente ostello di dolori e non più di valori, risuona come una eco drammatica il vuoto della mancanza. E nessuno meglio di Nanni Moretti, eterno autarchico, avrebbe saputo farlo emergere.
Marco Romagna