Direttore della Cineteca di Bologna, regista attivo dagli anni ’60 con molteplici film di culto per il cinema italiano e internazionale sia nel passato remoto (I pugni in tasca, Sbatti il mostro in prima pagina) sia nella scorsa decade (L’ora di religione, Vincere), Marco Bellocchio è senza dubbio uno dei nomi più altisonanti nel panorama cinematografico della nostra penisola. Il suo cinema umano è comprensibile a tutti, con i suoi film che coi decenni hanno costituito una coerente mappa geografica di contenuti liberi (religione, politica, identità), e nonostante qualche inciampo inevitabile in una filmografia così ricca e longeva, l’autore rimane nei cuori del cinefilo italiano come un grande nome da cui però, ormai, non si sa mai cosa aspettare. Sangue del mio sangue è, purtroppo, tra i punti più bassi della sua ampia filmografia, ma anche tra i suoi film più alieni e misteriosi, un’operazione cinematografica a tratti irricevibile ma in maniera, più che prettamente negativa, confusa.
La struttura narrativa stessa del film ha qualcosa di folle: è diviso in due parti legate in maniera non convenzionale, entrambe ambientate a Bobbio, di cui la prima è una storia medievale in costume di magie, eresie e satanismi da esorcizzare, e la seconda è un delirio vampiresco e cadaverico che annaspa senza coerenza nella modernità, mostrando un Roberto Herlitzka mummificato vagare fantasma tra le pareti di un mondo plastico e inquietante. Nonostante l’approccio registico di Bellocchio sia qui, più che mai, televisivo e l’immagine sia così chiusa in sé stessa, vi è un indiscutibile coraggio nello scrivere una trama in cui ogni dato è messo in discussione e ogni surrealismo può essere interpretato in più maniere, con un fare enigmatico che è (parzialmente) estraneo al cinema del regista. Certo, ci sono i temi da sempre cari al cinema del regista, da Bobbio-mondo ai corsi e ricorsi storici, dal malaffare religioso a quello politico-sociale, ma in questo caso risultano incastrati in una struttura talmente pastrocchiata da porsi come in definitiva incomprensibile. Certo, sarebbe stato impossibile sbagliare ogni singola sequenza, perché l’ampio e libero respiro che può essere dato ad ogni singolo delirio non può che far sfociare lo stile di un grande regista nell’esplicitazione del proprio talento. E infatti almeno un paio di scene più o meno emozionanti ci sono, in particolare i 5 minuti finali (che sono il culmine del processo narrativo palesemente in modalità folle) mettono, letteralmente, a nudo gli esorcismi messi in atto per tutto il film, liberando la crudezza carnale dell’uomo da una prigione di mattoni che si è autoimposto, facendo sprigionare la bellezza dalle barriere che l’uomo costruisce per sé stesso limitandola con le proprie mani.
Ironicamente, si può vedere questa visionaria sequenza conclusiva come una triste allegoria per il film stesso: è la bella immagine, una delle positività più elementari e primitive, e a volte non necessarie, riscontrabili in qualsiasi grande film, ad essere imprigionata dall’uomo, forse Bellocchio stesso, che condanna il proprio stesso virtuosismo (e la fisicità e l’onestà “a nudo” e la bellezza e l’emozione) ad una prigionia per tutto il film, liberandola appunto da ogni legame disumano e artificioso con questa conclusione morbosa in cui l’incomprensibile diventa l’unica vera via di fuga. A rendere però più improbabile pure questa sequenza vi è un triste e ingiustificato sottofondo musicale che presenta una versione angelico-corale della rock ballad Nothing Else Matters dei Metallica, presente precedentemente in una delle scene finali della prima parte del film e nel trailer.
Diviso tra vari tipi di cinema, senza una decisione stilistica o concettuale che sia una, ma con per definizione stessa il coraggio di non avere una definizione stessa, Sangue del mio sangue è l’Only lovers left alive ‘de noantri’, una grottesca umanizzazione del tema vampiresco che usa il tempo come specchio dell’immagine e del sangue, ma risultando più che altro pacchiano a causa della sua prepotente indecisione. Con gratuitismi continui e pure momenti umoristici fuori luogo, il film alterna chiacchiericcio e luoghi comuni (tanto del genere quanto della critica sociologica nel cinema italiano moderno) fino ai suoi ultimi respiri, nei quali finalmente entra nella storia del cinema, come il primo film di Bellocchio a far risiedere la propria qualità soltanto nell’impianto visivo, stilistico, e del genere. Impianto che, in realtà, è stato sopito per tutta la durata del film, aspettando un’esplosione che giunge troppo tardi e senza abbastanza follia.
Nicola Settis