SAN VITTORE (2018) / NON È SOGNO (2019), di Yuri Ancarani / di Giovanni Cioni
San Vittore e Non è sogno messi di fila sono un piccolo miracolo di programmazione festivaliera. Sono due film separati, indipendenti l’uno dall’altro, diversi per intenti e per estetica, ma uniti, complementari. Si può dire innanzitutto come il cortometraggio di Ancarani si concentri sul raccontare il carcere al di fuori dell’area di detenzione, vivendo dunque lo spazio-prigione mediante le azioni e l’immaginazione dei bambini che visitano il carcere di San Vittore e mettendo in scena soprattutto la figura del poliziotto, mentre viceversa il lavoro di Cioni è solo concentrato sui carcerati (di Capanne, a Perugia), sul creare per loro uno spazio ulteriore, mediante la cinepresa e un green screen. La doppietta costituita dai due lavori dà dunque uno sguardo d’insieme sul mondo del carcere in cui quasi tutto è messo in scena, dall’inconscio del prigioniero fino allo sguardo esterno e innocente di chi visita la prigione senza sapere cosa sia; a rimanere effettivamente fuori dal campo alla fine è solo la quotidianità interna del carcere stesso, la sua vita consueta. La “verità estatica” del carcere è dunque ricercata non nel suo essere puro ma negli eventi collaterali: San Vittore finisce per diventare una fiaba spaventosa, Non è sogno invece una ricerca di un sogno (ove, come dice il titolo, probabilmente non c’è). A San Vittore il sogno è l’immaginazione, l’immaginazione è messa direttamente su carta, e l’architettura del carcere subisce metamorfosi a causa della rappresentazione, grazie all’estro creativo degli infanti; a Capanne di Perugia, invece, il carcere pressoché smette di esistere, vive solo nei racconti della condizione del prigioniero, e l’unico spazio che esiste è lo spazio intimo in cui i carcerati sono filmati, le relazioni umane che si creano, e l’effetto speciale digitale dato dal green screen, che può aprire il cielo – ma che, più spesso, è usato come sfondo piatto. Il lavoro di Ancarani è muto, si affida all’immagine per non usufruire della parola, è come un quadro da interpretare, in cui la vera rappresentazione è nel fuori campo o in immagini non personalmente costruite dal regista (i disegni), quello di Cioni richiede un allontanamento dalla cerebrale analisi della forma cinematografica perché è invece basato quasi solo sulla parola e sulla sua potenza (e sugli occhi e sui volti dei protagonisti), e in fondo la forma audiovisiva era semplicemente la più adatta a lasciar trasparire il racconto dell’anima dei suoi protagonisti. Il carcere italiano non è mai stato così vivo nell’immaginario cinematografico documentaristico, probabilmente neanche ai tempi di Cesare deve morire dei Taviani.
San Vittore non rimette in scena i disegni dei bambini come ‘tableaux vivants’, li inquadra soltanto, e li alterna ai corpi senza volto dei poliziotti che li perquisiscono e li fanno passare per il metal detector, come veri prigionieri. L’infante cammina per i corridoi dell’edificio stringendo la mano dell’opprimente sbirro protettore, tenendo nell’altra mano un giocattolo di poliziotto. I sussurri infantili si sovrappongono nel dare corpo e voluminosità a questi tre fulcri: i disegni, il bambino che cammina, le ridicole perquisizioni. L’idea che si ha di San Vittore è quella di un ingresso in un girone dell’inferno, in cui l’inquietudine è derivata anche proprio dalla non-definizione di quello che l’inferno potrebbe implicare: tutto è lasciato alla descrizione dello spazio visto da fuori. I disegni dei bambini sono gremiti di mantra rassicuranti («è una fiaba, è una fiaba»), fantasmi, poliziotti demonizzati, bambole assassine, sbarre. Scegliendo di riportare così in vita il carcere, Ancarani, dopo lo sguardo freddo e caotico di The Challenge, attua un’operazione profondamente umana, che porta nel contempo al distacco (questa non è l’istituzione carcere per come è canonicamente rappresentata, gestita e vissuta) e all’immedesimazione, perché il bambino già attua nella propria creatività una scelta di rappresentazione applicabile all’immaginario collettivo – ma in una forma base, stilizzata, elementare, senza i fronzoli che l’età adulta aggiunge con la razionalizzazione e l’intelletto, con solo la pura, dinamica struttura per forme, e qualche aggiunta dal sapore horror. È umano perché ci ricorda come, prima della progressiva invasione delle sovrastrutture poste per secoli e secoli di aggiustamenti sociali, tecnologici e comportamentali nel tentativo patetico di comprendere una verità corretta per addomesticare l’uomo, la forma base positiva del nostro essere comprenda la dannosità dal concetto-carcere, viva la cattività come aliena, oltreterrena, ectoplasmatica. Non è un discorso sociale, e neanche un discorso esistenziale, non è un discorso: è una rappresentazione minima di un singolo spazio appartenente a un’eterotopia (v. Foucault), che mediante soprattutto gli occhi degli altri e la visualizzazione di una forma base riesce a dare una visione cosmica di ogni sfaccettatura dell’eterotopia stessa.
Non è sogno parte da presupposti diametralmente opposti. Invece di raccontare la chiusura, vede l’apertura, anzi, la crea. L’esistenza stessa del film, vicina parzialmente per intento a quella del succitato Cesare deve morire (nel film dei Taviani c’era Shakespeare, qua Pasolini e Calderon della Barca), è un mcguffin le cui conseguenze, le confessioni e le parole dei protagonisti, sono vere protagoniste. Il montaggio è discontinuo e confuso, forse, ma non è importante. È un film puramente da esperire, difficile da spiegare e inutile da cerebralizzare, in cui vigono le regole dell’analisi sociale ma valgono le citazioni e l’appropriazione di una libertà espressiva e verbale da parte dei carcerati. Le loro confessioni, i loro messaggi personali, i loro scambi veloci con la troupe e le loro prove di recitazione più o meno riuscite: si dipana sullo schermo uno spettro di diverse funzionalità della mente criminali, diversi gradi di colpa, diverse categorie di consapevolezza e di gestione del proprio Sé e della propria prigionia. La cinepresa e il chroma key fanno da ausilio a rendere questo spazio il più possibile vivo, esteriorizzando quello che altrimenti sarebbe perlopiù un’interiorità. Tra l’ergastolano che ha tentato il suicidio tre volte per ricerca di attenzioni, il rapinatore di banca fidanzato con la direttrice Unicredit, il cinese rilassato per la sua «prima breve condanna» di 15 anni e l’anziano e saggio spacciatore che ha passato più di 30 anni in cella, Non è sogno propone una galleria di volti e nomi che anch’essi costituiscono un loro immaginario a parte, una nuova visione puramente documentaristica in maniera diretta e osservativa, che tuttavia guadagna una sua poesia, una leggerezza quasi innaturale (e infatti giustamente spesso interrotta da drastici spostamenti nel piano più drammatico della realtà dei fatti) e assurdamente mai retorica né pornografica, che rende l’oggetto conclusivo, in fin dei conti, un documento di interesse evidente.
Siamo avvezzi all’opinione che il cinema italiano sia in rovina, che non esistano più gli autori nostrani nell’entroterra della condivisione autoriale dell’audiovisivo, che non ci sia una speranza per l’immagine in movimento come arte. Bisogna forse provare a superare questa parvenza e ricrederci su che cos’è quello che vogliamo davvero vedere: Cioni e Ancarani dimostrano le due facce opposte e simili di un’eventuale ridiscussione del cinema documentaristico, in cui il motore dell’opera è nel contempo alimentato dalla necessità di una sincera testimonianza e dalla ricerca di uno sguardo collaterale. Entrambe le sperimentazioni sono state gestite dagli autori con appigli diversi ma con grande successo, riuscendo a riempire ulteriormente i buchi del rappresentabile con modalità non uniche ma risultati di grande ed evidente successo espressivo.
Nicola Settis