SAMP (2020), di Antonio Rezza e Flavia Mastrella
Mi perdoneranno i noti surreal-anarco-dadaisti Antonio Rezza e Flavia Mastrella se parto da una piccola nota personale che con il loro nuovo e strabordante lavoro, presentato dopo lunghissima gestazione nelle Giornate degli Autori di Venezia77, non c’entra (quasi) nulla. Una nota calcistica, o forse in qualche modo antropologica e sociale, che la stragrande maggioranza di chi non è nato e cresciuto a Genova troverà comprensibilmente ridicola e fuori luogo, e che invece trae origine da un senso di appartenenza troppo radicato e profondo per poterlo accantonare, anche a costo di sembrare un idiota, persino quando tento di indossare le mie vesti il più possibile professionali e cinefile. Il fatto è che, da genovese e genoano addestrato sin da piccolo a detestare tutto ciò che ha più di due colori e troppe consonanti consecutive, faccio fatica a scrivere la parola Samp senza pensare a “quelli lì”, ai derby persi, alle pernacchie e all’ironia bastarda prima dei compagni di banco e poi dei colleghi di lavoro, al loro spuntare fuori come funghi velenosi solo quando vincono. Faccio fatica a rifiutare un automatico orrore con cui convivo per diritto di nascita, faccio fatica a bloccare riflessi che sono ormai spontanei e a non lasciar emergere fra i denti una serie di (im)percettibili doriamerda. Anche se so benissimo che in questo caso Samp non vuole in alcun modo identificare il quartiere ponentino di Sampierdarena, né la squadra, né i tifosi che con la loro accozzaglia cromatica da sempre mi rovinano la vita, rimane sempre ad accompagnarmi un senso di innato fastidio, di istintiva repulsione che si intreccia e costantemente mi porta a patti con il piacere della visione. Il che, in qualche modo, è esattamente nella natura del percorso artistico di Antonio Rezza e Flavia Mastrella, lo accresce e lo rende ancora più efficace, diventa ulteriore stratificazione della loro trasversale ricerca linguistica fra furia iconoclasta e surreale ostentazione anche dello sgradevole, dello scorretto, o per lo meno dell’ambiguo. Del resto, il protagonista con il pizzetto da moschettiere che condivide il nome con il film è un assassino su commissione, un improbabile quanto implacabile criminale che uccide (non troppo) di soppiatto vittime innocenti, eppure c’è anche e soprattutto l’amore a guidarlo, a renderlo così umano da giungere a una (im)possibile identificazione, a renderlo persino paladino contro i soprusi. Forse solo il genio dei Rezzamastrella, con la loro idea di performance totale e la loro comicità da sempre il più possibile lontana da ogni soluzione accomodante, poteva farmi parzialmente riconciliare con questa successione di quattro lettere, poteva farmi sinceramente piacere un qualcosa che portasse questo nome. Fino a farmi tornare professionale e a parlare di un gran film, o per lo meno a provarci.
Samp è qui San Paolo di Civitate, centro nevralgico del candore dei paesaggi della Puglia sui quali l’omonimo assassino interpretato da Rezza, tarantolato nella sua giacca fucsia, spicca con il suo colore sgargiante e la sua fisicità esasperata. Una rottura cromatica fra i luoghi e il personaggio che è sin da subito la dichiarazione programmatica di un film che è tutto un continuo rompere e distruggere – o forse sarebbe meglio dire uccidere – ciò che sono la regola e la consuetudine per tagliare definitivamente il cordone ombelicale con la tradizione e addentrarsi su nuovi sentieri artistici. Non c’è più la chiara e palese dicitura che fungeva da sottotitolo al precedente Delitto sul Po, così come non c’è più l’estrema frammentarietà degli sketch seriali riassemblati e trasformati in lungometraggio, ma esattamente come il lavoro del 2002 anche Samp (di cui proprio nel 2002 è stato girato il primo di una lunghissima serie di ciak) è orgogliosamente un anti-film, che ben conosce e sistematicamente ribalta quelle che sono le regole del cinema industriale, della mediocrità di prodotti sempre più tutti uguali, del politicamente corretto di cui vengono infarciti. A partire dalla sua genesi quasi ventennale e pressoché senza budget, che lo fa nascere in qualche modo già sfasato e quindi atemporale, fino alla pressoché totale assenza di una sceneggiatura, largamente improvvisato on-the-road fra i non-attori in giro per la Puglia a partire da poco più che un canovaccio. Un film sul fare arte, sul demolire per poter ricreare, sulla forma, sull’avanguardia, sui compromessi fra percezione e immaginazione, fra ciò che si vede e ciò che si sente, fra la narrazione la (non) credibilità. Un film sulla performance, sul corpo nello spazio, sulla mimica esasperata, irresistibile nella sua comicità personalissima, cinica, iconoclasta, anarchica. Con tutte le sue inquadrature sghembe e fuori asse, con tutti i suoi mascherini mobili che costantemente incorniciano la bassa definizione del digitale, con tutte le sue sgrammaticature tanto verbali, pronunciate dal personaggio, quanto concettuali in ogni inquadratura e in ogni movimento della macchina da presa. Con tutte le sue luci rigorosamente naturali, con tutti i suoi set improvvisati in giro per il bianco e i trulli della Puglia, con tutti i suoi camera car e carrelli “in economia” stando seduti nel portabagagli di un’utilitaria. Con il suo raccordo idraulico che, grazie al sonoro, diventa una perfetta pistola capace di sparare e di uccidere, con il suo guanto di gomma (ma anche una chitarra, o un clacson) che suonano come una cornamusa, con l’improbabile tuta spaziale con cui Flavia Mastrella appare nel finale, con i suoi sottotitoli per dialoghi muti in quelle che sono vere e proprie sospensioni chopiniane, o ancora con le sue rotazioni panoramiche “folli” di una mdp/trottola prima al tavolo del Presidente, e poi al momento della resa dei conti.
Non è certo un caso che la prima vittima dell’omicida Samp sia sua madre, e che poi l’assassino venga assoldato, con tutti i suoi “popolari” rimorsi per il fallimento di non essersi mai laureato e tutta la sua emotività, per sterminare i depositari della consuetudine, gli antiquari e le anziane signore, i bambini che giocano, i disoccupati, persino il suo migliore amico, perché «l’amicizia non è necessaria in un organismo sano». A dover necessariamente morire sono le radici, le forme cinematografiche precedenti, la sceneggiatura, il tempo, il budget, le regole di quel racconto che vengono apertamente e continuamente assassinate, reinventate e rivoluzionate da Antonio Rezza e Flavia Mastrella. Tanto che quando il padre muore da solo, il rimpianto di Samp al funerale sarà per non esserselo «inculato» personalmente. Lui, il sicario pagato in falsi dollari verdi del Monopoli («Gli Euro», dirà, sono «troppo moderni») per annientare la tradizione, eppure aiuto per il tradizionale zampognaro, che a sua volta verrà ucciso da chi le tradizioni scozzesi le ha rifiutate e odiate, ma che sotto alla sua giacca rossa, contrapposta tanto a quella rosa di Samp quanto a quella nera del Presidente mandante degli omicidi, mai smetterà di indossare il kilt. Un ulteriore stacco cromatico che in qualche modo è pittura, e che affianca le altre arti sistematicamente riscritte dalla coppia di artisti: nel suo aperto gioco con il tempo, fatto di reiterazioni, tormentoni, episodicità e un incidente automobilistico dilatato fino alle porte dell’infinito, Samp è cinema, è teatro, è televisione, è architettura, e forse al contempo non è nulla di tutto questo, ma è il loro superamento, il loro declinarsi in nuove regole scardinandone e ricombinandone i linguaggi. Fra riletture e parodie, fra corse per i trulli senza accorgersi di avere il culo di fuori e improbabili cappuccini sorbiti direttamente al seno di contemporanee matrone. Basterebbe il misto fra presa diretta e doppiaggio, in cui la voce esagitata di Rezza è registrata dal vivo ma quella del Presidente è in realtà un pacato Valerio Mastandrea che segue altrui labiali in postproduzione, oppure l’insistita danza fra ἔρως e θάνατος, in cui alla freddezza del killer corrisponderanno sempre i sentimenti totalizzanti e assoluti dell’uomo alla costante ricerca di donne ideali impossibili da raggiungere, che per diversi motivi non è dato di vedere, o per lo meno di vedere completamente e che probabilmente nemmeno esistono, ma nient’altro sono che un’automobile mossa a mano nella recitazione di una serie di coiti impossibili. Che poi, a ben vedere, sta proprio qui la principale riflessione sociale sui vent’anni che ci sono voluti per la realizzazione del film. Vent’anni in cui l’individualismo e l’immagine hanno definitivamente superato, nella percezione popolare, quelle che sono la verità, la sincerità, l’umano. Vent’anni di avatar, di finzioni social, di ricerche spasmodiche del like, di menzogne che si piazzano fra il pubblico e il privato alla ricerca di una popolarità che poco importa sia del tutto distorta. L’esatto opposto di Samp e dei lavori dei Rezzamastrella, che al contrario mostrano orgogliosamente il distorto, il fuori asse, lo “sbagliato”, il fastidioso, come unica via per raggiungere l’intima natura, la sincerità, l’autorialità, l’avanguardia, l’arte in quanto tale. E sì, nelle gabbie asfittiche di un cinema italiano sempre più in agonia c’era realmente bisogno di un simile meteorite anarcoide che giungesse a minare le fondamenta del sistema, facendo rinascere almeno un po’ di speranza.
Marco Romagna