SAM WAS HERE (2016), di Christophe Deroo

Il Torino Film Festival è senza ombra di dubbio uno dei festival più variegati ed eclettici del panorama italiano, con una selezione capace di svariare dagli interessantissimi viaggi nel cinema documentario e sperimentale alle anteprime mainstream, dagli sguardi retrospettivi sempre curati a una sezione come Afterhours, dedicata ai film di genere, grandi e piccoli “guilty pleasures” fra fantasmi, omicidi e divertiti mockumentary. La kermesse sabauda è un Festival cittadino profondamente radicato nel tessuto urbano e culturale della città, prodigo nel proporre alle genti di Torino e a chi accorre da più o meno tutta Italia una selezione multidirezionale, che in grado di abbracciare ogni gusto e aspirazione in una divisione per sezioni da cui qualsiasi accreditato sa sempre cosa aspettarsi. C’è una sorta di ‘best of’ di quello che gli altri Festival in giro per il mondo hanno saputo offrire durante l’anno, c’è una cura particolare per anticipare ciò che di più ghiotto arriverà a breve in sala, c’è un rigore quasi accademico nella ricerca dei titoli più radicali unito a una genuina passione cinefila nell’affiancare il cinema più complesso a ciò che è invece più popolare e di richiamo, con una particolare attenzione riservata all’horror. A questo genere, a partire dall’anno scorso, viene dedicato uno spazio magico, ovvero la Notte Horror: questa tradizione, originaria del Bergamo Film Meeting e portata al TFF dalla direttrice Emanuela Martini, consiste in una serie di tre proiezioni di film dal thriller al terrore – passando, perché no?, per la commedia orrorifica – a partire da mezzanotte fino alle cinque di mattina circa, evento unico del sabato sera. Si tratta di un folle rituale cinefilo, in grado di creare un’atmosfera tanto goliardica quanto surreale, traducendosi quindi in un appuntamento ormai imperdibile per intere orde di spettatori pronti a riempire la Sala1 del Massimo, la più grande.
La selezione notturna di quest’anno, prima di lasciar esplodere The Return of the Living Dead e di chiudersi con Sadako v Kayako, si è aperta con Sam Was Here, esordio alla regia di Christophe Deroo, che in realtà si presenta più come un violento thriller psicologico non privo di tinte western che come un horror vero e proprio. Il film ci mostra la vicenda di Sam, un venditore porta a porta che è stato mandato per lavoro in una desolata cittadina di periferia americana immersa del deserto; il problema è che a ogni porta a cui bussa non si presenta nessuno. L’area sembra essere completamente disabitata, e le uniche voci che il protagonista riesce a sentire sono quelle di una strana stazione radio in cui un DJ e i suoi ospiti telefonici non fanno altro che indignarsi e lamentarsi rabbiosamente di qualsiasi cosa passi loro per la testa, mentre circola la notizia di un serial killer a piede libero per la zona e pare che il suo nome sia proprio Sam. Sam was here procede nella sua discesa nella follia con un ritmo efficace e sostenuto, in particolare nella prima metà del film, aiutato da una colonna sonora di sintetizzatori di chiara memoria carpenteriana, fino a portare il protagonista a essere perseguitato da uomini con maschere di gomma che cercano in tutti i modi di ucciderlo – da un indimenticabile poliziotto e pessimo cecchino a una coppia di fratelli che, per quanto svolga effettivamente la sua funzione di trascinare Sam nella spirale di sangue e violenza messa in scena, viene troppo frettolosamente liquidata per fare presa.

Le premesse narrative vengono tradotte visivamente da una regia molto efficace, figlia del sincero interesse dimostrato da Deroo nei confronti dell’immagine: il deserto americano viene rappresentato con cura in tutta la sua disturbante vastità, illuminato in molti punti da una misteriosa e violenta luce rossa, elemento di puro linguaggio cinematografico che non viene mai spiegato direttamente sebbene sembri essere proprio la causa della psicosi collettiva a cui si assiste nel film. Il film ruota attorno all’ansia dell’essere osservati, inseguiti, e dunque a normali “campi” in cui Sam entra in questi luoghi disabitati si alternano “controcampi” ripresi da telecamere di sorveglianza che lo osservano, come in una sorta di Shining su nastro magnetico. Una menzione d’onore anche alle scene di violenza che, seppur non sempre gestite nel migliore dei modi a livello di collocazione nel film, riescono ad essere tesissime e crudeli senza la necessità di mostrare tutto allo spettatore.
Anche se la vicenda si svolge negli anni ’90, è chiaro che il film è attraversato da un’aria molto familiare a quella dell’era della Brexit e di Donald Trump a cui stiamo assistendo ora, con un leader che incanala la rabbia repressa della folla tramite un mass media contro un capro espiatorio, isolato e poi perseguitato fino alle più estreme e violente conseguenze. In sostanza, Sam was here è una discesa nell’inferno in grado di rappresentare, in maniera concisa ed efficace, sospesa fra l’ambientazione tesa di duel Duel e i duelli nei prefabbricati nel deserto di Kill Bill, proprio come sia facile fomentare l’odio collettivo contro un uomo, distruggere una persona, renderla una preda. Peccato che l’autore non sia abbastanza deciso sulla strada da intraprendere, e inserisca nel finale una rivelazione – a metà strada fra una possibile sostituzione di persona e la rivelazione del crimine più efferato contro una bambina – la cui utilità e correttezza nei confronti dello spettatore e lasciano molto perplessi, al punto da far traballare tutto il discorso costruito dal film. Nonostante questo, Sam Was Here risulta essere un film perfettamente godibile, che parte da chiari riferimenti al grande cinema degli anni ’70 e ’80, fra Spielberg e Carpenter, a cui si aggiungono una serie di trovate divertenti e interessanti, un’ottima gestione del mood e anche qualche caduta, fra sequenze i cui tempi non sono gestiti alla perfezione e una troppa carne al fuoco che alimenta l’aura di mistero, ma disperde anche buona parte dei propri intenti politici e del proprio intimo significato. Ma c’è sicuramente del talento, e non possiamo che augurarci che Deroo possa imparare a sfruttarlo ancora meglio nei suoi prossimi lavori. A partire da quella tenda sporca di sangue, dalla cui accurata pulizia ricomincia tutta l’omertà di quella tremendamente affascinante follia collettiva chiamata Stati Uniti d’America.

Tommaso Martelli