SAINT OMER (2022), di Alice Diop
Colpevole o innocente? Ogni legal o courtroom drama che si rispetti ha nella risposta a questa domanda il suo culmine, il finale dove l’imputato apprende la sua sorte, l’eroico avvocato/pubblico ministero si prende la rivincita della sua carriera in declino, la vittima riceve giustizia e ogni altra variante possibile tra queste parti in causa. Ma cosa succede quando il confine tra le due cose non solo non è così chiaro, ma l’emissione stessa di una sentenza potrebbe risultare come un sopruso e una semplificazione? Al primo lungometraggio di finzione, la cineasta francese (con genitori provenienti dal Senegal) Alice Diop porta in Concorso alla 79ma edizione della Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia Saint Omer, titolo che evoca il nome del Tribunale della Repubblica dov’è ambientato, per la gran parte, il film. Rimette in scena senza orpelli un processo, affidandosi alle sue componenti essenziali, alla drammaturgia “interna” all’evento, tra i più automaticamente sceneggiati tra gli eventi pubblici. Nei minuti iniziali, assistiamo ad un segmento apparentemente inessenziale: la scelta dei giurati. La camera, alla stregua di un circuito chiuso di sicurezza, si muove incessantemente e con lo stesso “timing” da sinistra a destra e viceversa; fino a quel momento, avevamo assistito ad una messa in scena canonica, una lezione universitaria, un pranzo in famiglia, mentre il movimento a pendolo ci porta all’interno di un buco nero. Uno dei tanti buchi neri della società a cui si può assistere quotidianamente in un’aula di tribunale, ma con uno dei crimini più odiosi e indicibili: l’infanticidio commesso da una madre nei confronti della propria bambina. Rama (Kayije Kagame) è una scrittrice e insegnante, che prende a seguire il caso di questa novella Medea proveniente da Dakar (come la sua famiglia) in modo da tirarne fuori materiale per un reportage. L’abbiamo vista tenere un corso su Marguerite Duras e la punizione delle collaborazioniste francesi nel secondo dopoguerra, scopriamo che aspetta un bambino dal suo compagno, sembra essere la protagonista assoluta ma durante il processo si metterà in posizione di ascolto. Il resoconto che si trova, appunto, ad ascoltare, la scuote nel profondo, perché si tratta, in pratica, di una storia d’integrazione mancata opposta e speculare alla sua. La 43enne Diop s’identifica con Rama e concede a Laurence Coly (Guslagie Malanda) la possibilità della discolpa: inquadrature frontali, neutre, l’interrogatorio incalzante e la forza evocativa delle parole. Laurence è una studentessa brillante in patria, vuole andare a studiare in Francia, i genitori sono favorevoli, il resto del parentado meno. Arrivata su suolo transalpino, si trova, improvvisamente, a non essere più nessuno: nessun documento, nessuna identità, un anziano proprietario di atelier che la ospita, o sarebbe meglio dire la nasconde. E poi il parto effettuato in solitudine, in bagno, per non far scoprire la sua clandestinità. Il retaggio culturale della madrepatria continua a tenerla avviluppata attraverso la paura della stregoneria, del malocchio, dell’invidia tramutatasi in volontà di distruzione. Non più senegalese, mai francese, una condizione che qualsiasi emigrante si trova a vivere, nel rapporto tra il suo luogo di provenienza e la meta d’arrivo e di nuova vita, ma i livelli e le recrudescenze di tutto questo possono sfociare in gesti estremi: la radicalizzazione religiosa, il consegnarsi alla criminalità organizzata o, in questo caso, il portare a compimento l’eliminazione fisica della creatura visceralmente amata.
Uno degli esempi cinematografici più potenti ed estremi degli ultimi anni, pur nel suo rigore formale, di rappresentazione del colonialismo culturale occidentale e segnatamente francese, anche a decenni di distanza dal raggiungimento dell’indipendenza e dalla fine del colonialismo di fatto. L’impossibilità d’integrazione si dispiega pian piano attraverso le testimonianze (su tutte quella di una professoressa che non ritiene Laurence adatta a studiare Wittgenstein, filosofo del linguaggio, perché lontano dalla sua cultura d’origine, affermazione quasi candida nella sua agghiacciante superficialità), ma la lucidità dell’imputata e la sua durezza tagliente come un rasoio, i lineamenti fermi e la rigidità posturale diventano un monolito agli occhi degli spettatori, dell’etnicamente composita giuria e, soprattutto, di Rama. Che continua ad ascoltare gli estratti del processo, la progressiva fuga dalla realtà di Laurence, l’obbligo impostole di parlare francese dalla famiglia anche in tenera età a Dakar, e parimenti ricorda la sua infanzia, la madre che indossava di nascosto davanti allo specchio abiti e monili africani, la “francesizzazione” progressiva e incalzante, le treccine afro come unico segno identitario rimasto. Analisi antropologica (molto) più che spettacolare, Saint Omer richiede allo spettatore tempo e sforzo per relazionarsi alla modalità rappresentativa prescelta, ma ripaga ampiamente dispiegando una riflessione profonda sui legami ancestrali tra cultura e natura, dove si preferisce esternalizzare le colpe (la stregoneria) pur di non frugare a fondo nella propria insondabile psiche. D’altra parte, Laurence comincia proprio così la sua deposizione: «Non so perché l’ho fatto, vorrei capirlo con questo processo. Come mi ritengo? INNOCENTE». L’ho fatto, ma sono innocente, altro cortocircuito e nodo gordiano della psiche: l’unica maniera che la nostra civilissima società ha trovato per districarlo è una serie di domande poste dai professionisti della materia, e un numero di persone, prese dalla società civile, chiamate a prendersi l’incommensurabile responsabilità di un verdetto. Ci siamo mai interrogati sulla funzionalità di questo meccanismo? Su quanto sia utile in casi che comprendano l’analisi di culture differenti? C’è un’alternativa? Altre domande che, come avrete ormai capito, il testo filmico, denso di contenuto, fa risuonare nella testa di chi lo guarda. Rama manipola, letteralmente, la Medea pasoliniana attraverso un player che ha tutta l’aria di essere Vimeo, lo YouTube “esclusivo” delle manifestazioni artistiche di ogni tipo. Prepara accuratamente la narrazione del processo, ricercando anche “pezze d’appoggio” culturali, e poi… probabilmente lascerà perdere. Sporgersi e guardare nell’abisso (più sopra lo si è chiamato buco nero, ma il concetto è lo stesso) è una pratica rischiosa, può portare a riconsiderare sotto altre vesti l’intera propria esistenza, o magari a comprenderla più a fondo. La cineasta Diop si è trovata a vivere la stessa esperienza, e se Rama ne rappresenta il doppio finzionale, Laurence è lo spauracchio, il monito, l’invito all’empatia verso qualsiasi forma di errore, anche il più estremo e all’apparenza incomprensibile. Cinema psicologico, politico, giudiziario, antropologico: inaspettatamente, uno dei colpi al cuore più intensi della Mostra di quest’anno.
Donato D’Elia