«Almeno una volta nella vita un regista dovrebbe fare un film sui seguenti soggetti: i gemelli o il sosia, l’incesto, una capanna nel bosco, monache e/o monaci, un motociclista, lesbiche che vivono allo stato brado e un sacerdote che commette un abuso sessuale. Saint-Narcisse mi ha permesso di combinare tutti questi elementi in un solo film», afferma nelle note di regia Bruce LaBruce a proposito del suo nuovo e brillante lavoro, presentato in chiusura delle Giornate degli Autori alla 77ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Un film dalla consueta e profondissima faccia tosta, ironico, provocatorio e senza alcuna paura di lambire la blasfemia, che fa convergere punti di partenza opposti fino a sovrapporli, scambiarli, (letteralmente) accoppiarli, e così liberarli dei rispettivi gioghi.
È una scanzonata e spassosa fiaba nerissima d’amore universale e pansessuale Saint-Narcisse, un continuo gioco iconoclasta di montaggi alternati e di sarcastiche sovrapposizioni di senso e identità, un intelligente divertissement che lavora con sagacia sulle infinite declinazioni del tema del doppio andando sistematicamente a distruggere ogni ipocrisia della famiglia, della religione e della società borghese. Sono ovviamente doppi i gemelli, sono giocoforza doppie le vite di chi scopre di avere una madre e un fratello solo a ventidue anni, sono doppie le attrazioni e le preferenze sessuali e sono doppie le storie con cui ingannare i protagonisti per oltre due decenni. Come sono doppie le donne identiche nel passare delle generazioni, sono (stati) doppi i giochi dei cospirazionisti che portarono via i neonati alla madre per punire la sua saffica relazione adulterina, sono doppie le biforcazioni fra i santi e i diavoli, e sono per molti versi doppie anche le regole dei generi cinematografici con Bruce LaBruce apertamente si mette a giocare, fra le tinte orrorifiche e la commedia, fra l’erotismo d’ogni gusto sessuale e il melodramma, fra una narrazione il più possibile tradizionale e le continue trovate linguistiche da innestare in potenti accostamenti di montaggio. Ma andiamo per ordine, per quanto possibile.
Inizia in una lavanderia Saint-Narcisse, dalla vista di quell’avvenente biondina e dal sogno di un rabbioso e quasi eroico amplesso con tanto di pubblico accalcato di fronte alla vetrina. Un sogno convulsamente interrotto da uno spassoso ritorno alla realtà, con la necessità di rimettere la vecchia nonna a letto. Un punto di partenza, forse il miglior modo possibile per introdurre sin da subito non solo l’identità eterosessuale del protagonista Dominic, ma anche il suo desiderio di esibizionismo, il suo egocentrismo, il suo profondissimo amore per se stesso e per la propria immagine. Quello stesso amore per se stesso che lo spinge a scattarsi continuamente, nel Québec di un ’72 ancora ben lontano dalle mode degli smartphone, decine di selfie in Polaroid, e che lo porterà inevitabilmente a essere attratto fino al sesso incestuoso dal suo doppio/opposto Daniel, suo perfetto sosia e quindi altro “se stesso”, altra sua immagine. Un fratello gemello scoperto per caso, omosessuale che mai nella vita aveva conosciuto una donna, da sempre recluso in convento a subire sevizie dal monaco. Un altro e opposto punto da cui partire per tendere verso l’incontro e un “fluido” amore universale, totale, senza limiti. Meglio ancora se «in famiglia».
«Non farti troppe domande», dirà quasi subito a Dominic una puttana cieca alla quale il narciso protagonista ha appena regalato l’ennesimo selfie. Ma alla morte della nonna non sarà più possibile per lui non porsi domande, non salire sulla motocicletta per andare – a costo di ritrovarsi a visitare la propria stessa tomba – a riprendersi nella sua casa nel bosco una madre che credeva morta e che lo credeva morto, e lì incontrare sia Irene, figlia identica di quella che fu l’amante della sua genitrice («È una strega che vive con una compagna che non invecchia», lo avvertiranno in paese), sia il proprio identico Daniel di cui nemmeno la madre, al di là di un sesto senso, aveva mai saputo l’esistenza. Bruce LaBruce lavora di accumuli e cortocircuiti, di apparenze e di disvelamenti, di scarti e sovrapposizioni, giocando con i generi e rimbalzando da un fratello all’altro, da una parte la scoperta di una famiglia emarginata e della sua (dis)funzionalità (pan)erotica, e dall’altra i lunghi corridoi del monastero di clausura, le molestie di Padre Andrew, lo sguardo severo della statua di San Sebastiano, la peccaminosa masturbazione con tanto di frusta per autopunirsi di fronte alle pubblicità di intimo maschile. Entrambi i fratelli dovranno incontrarsi nell’incesto per scoprirsi e per liberarsi, e non è certo un caso se dopo il coito fra gemelli sarà proprio l’omosessuale Daniel, dopo le ripetute resistenze dell’etero Dominic, a cedere per primo (ma non certo per unico) alla grazia della bella Irene.
Non ci sono più le suore di The Misandrist nel mirino di Bruce LaBruce, ma anche nei confronti dei monaci uomini della confraternita è identica la vena anticlericale e di denuncia del regista canadese. Persino «fanatici religiosi che fingono di agire in conto di Dio ma in realtà si rinnegano», verranno esplicitamente definiti. Fino a trasformare la comunione in un’allusione alla fellatio, o il segno della croce di fronte al monaco stupratore nel controcampo del contemporaneo autoerotismo del gemello, o ancora per trasformare il padre educatore depravato Andrew nel responsabile di una nuova martirizzazione dei santi – e non è certo casuale, in tal senso, la visione del fratello riflesso nell’acqua quasi come un’apparizione sacra prima dell’inevitabile bacio. Ma Saint-Narcisse, nella sua spietata impertinenza, non è mai realmente sacrilego. È vero, prende il dramma della pedofilia nella chiesa e lo esaspera fino al parossimo e alla parodia, ma in tutto questo non c’è nulla di gratuito, nulla che non serva a far emergere le profonde contraddizioni del sistema perbenista e malato (o forse sarebbe meglio dire diabolico) che troppo spesso si nasconde sotto la falsa morale delle alte sfere religiose.
Del resto, pur nelle sue infinite trovate bizzarre e nelle sue stratificazioni sul doppio, su una società che teme, inganna, distrugge ed esclude una persona solo perché lesbica, sull’umiliazione pubblica che diventa damnatio memoriae e leggenda, o ancora su quella chiesa ipocrita che predica astinenza e pratica abusi plasmando menti e coscienze degli individui, quello di Bruce LaBruce è prima di tutto un film sull’identità, in cui il solo atto di tagliare barba e capelli può diventare un incontro con se stesso, ma in cui solo l’attrazione e il sesso potranno realmente sbloccare e ribaltare le situazioni. Una sorta di (im)probabile incrocio fra Inseparabili e Cappuccetto Rosso, o se si vuole fra Il nome della Rosa e Easy Rider, affidato al volto (o forse ai volti) e al corpo (o forse ai corpi) di un eccellente Félix-Antoine Duval pronto a interpretare entrambi i gemelli. Un film anarchico e spassoso, molto più stratificato di quanto vorrebbe dare a vedere, fatto di vendetta e di redenzione, di menzogne e di attrazioni. Un film profondamente libero, che ragiona sulle forme del cinema e non dimentica di amare. E di amarsi, ovviamente.
Marco Romagna