SAGES-FEMMES (2023), di Léa Fehner
È sempre la realtà l’elemento su cui si fonda e (ri)plasma, magari anche più volte in corso d’opera, la finzione del cinema corale e dolcemente caotico di Léa Fehner. A partire dalla scrittura dei protagonisti, pazientemente cuciti a mano a mano sugli attori scelti per interpretarli, sul loro carattere, sulla loro personalità, sul loro spessore umano, fino all’influenza degli elementi documentaristici che si innestano nella narrazione aprendo inevitabilmente nuove strade e nuovi orizzonti, deviando e intersecando le parabole dei personaggi, facendo ripetutamente cambiare direzione al racconto durante le riprese e poi di nuovo al tavolo di montaggio. Così era stato nel precedente Les Ogres vincitore nel 2015 prima a Rotterdam e poi a Pesaro, storia collettiva ambientata nel mondo del teatro itinerante con l’intera famiglia della regista, che di lavoro realmente gestisce una compagnia di teatro itinerante, chiamata a interpretare sostanzialmente se stessa a fianco del cast “puramente cinematografico” capitanato al tempo da Adéle Haenel in un percorso narrativo scandito dalle tappe della tournée, dalle incomprensioni, dalle passioni e dalle emergenze da risolvere, e così è in questa nuova opera terza Sages-Femmes, in titolo internazionale Midwives, letteralmente “ostetriche”, nato da un seminario di recitazione tenuto da Léa Fehner al Conservatoire national supérieur d’art dramatique di Parigi e portato avanti per lungo tempo insieme ai giovani interpreti. Un film che, nell’immergere con sguardo ora ansiogeno e ora dolcissimo, ma sempre rigorosamente delicato e pudico, la sua macchina a mano in un reparto di ostetricia di Tolosa – forse proprio lo stesso in cui la stessa Fehner-madre ha partorito i suoi due figli (con tanto di complicazioni, dichiara, in occasione della nascita del primo) – lascia che la sua finzione si adatti al corso degli eventi delle singole microstorie incrociate lungo la strada, filmando parti veri e rimettendone successivamente in scena i controcampi di nuovo con i veri genitori, diventati ormai parte dell’intreccio di racconti, ma questa volta insieme agli attori. Per poi immaginare e partecipare commosso alle possibili complicazioni, ai possibili effetti psicologici della pressione sulle dottoresse e ai percorsi di crescita e maturazione di ogni personaggio sempre a partire dall’emozione vera e più assoluta di chi tiene per la prima volta un figlio in braccio. Fra la tensione thriller delle emergenze e la commozione da frenare quando si assiste al miracolo della vita, fra l’umanità straziata quando c’è da dare notizia di qualche problema e una ben precisa vis politica nel denunciare le carenze di organico, l’eccessiva pressione, i salari non adeguati e le negligenze da parte delle strutture ospedaliere, fra corridoi sovraffollati, tecnologie spesso difettose e macchinose procedure che non sempre rispettano l’umanità e il dolore delle persone.
È per questo che parte senza un momento di respiro, Sages-Femmes, presentato nella sezione Panorama della 73ma Berlinale. Con il primo giorno di lavoro di Sofia e Louise, amiche e coinquiline entrambe appena uscite dal corso di specializzazione e scaraventate in medias res in una giornata di ordinaria follia, di corse contro il tempo, di tabelloni e posti letto pieni, di dilatazioni e di acque rotte, di assistenza medica e psicologica alle partorienti, di necessaria risolutezza e di umana delicatezza, di paura di sbagliare e di convinzione di non farcela. La prima sin da subito energica e risoluta, ma ben presto portata sul limite del burn-out dal trauma di un neonato salvato per il rotto della cuffia in rianimazione e solo grazie alla fiducia delle colleghe destinata a riprendersi e tornare al pieno delle sue capacità, e l’altra che invece parte con troppa emotività e qualche piccolo pasticcio, per poi crescere paziente dopo paziente fino a guadagnare progressivamente credito e affidabilità. C’è chi ha già perso in precedenza il primo figlio e vive nella tensione e nel terrore il secondo parto, fino a quelle lacrime di gioia incommensurabile quando si ritrova fra le braccia un neonato forte e sano. C’è chi nasce blu ma si riprende nel giro di pochi secondi, e c’è chi invece è da portare di corsa a ventilare in terapia intensiva. C’è chi preferisce l’epidurale e chi invece sceglie di partorire senza anestesia. C’è chi nemmeno sembra capire il francese, né tanto meno volere il bambino che sta partorendo, e c’è chi rimane dietro a una porta mangiato vivo dalla tensione di non sapere cosa stia succedendo. C’è una madre e futura nonna troppo invadente da accompagnare fuori anche se madre di un collega, e c’è la sua assillante agitazione con il figlio di fronte ai monitor anche mentre sta andando tutto per il meglio. Un romanzo di formazione corale fra la commozione della maternità e il cupo, inaccettabile dolore di un piccolo cuore che non ha mai iniziato a battere, a cui ben presto si aggiungerà come terzo coinquilino delle protagoniste anche il praticante Valentin, bamboccione ingenuo ed emotivamente impacciato (basterebbe la torta a forma di vagina che confeziona per Natale per festeggiare insieme ai colleghi, oppure quando è troppo emozionato e felice di tenere un bambino in braccio per pensare di restituirlo ai genitori) che, nella scelta sconsiderata ma umanissima di ospitare a casa una paziente senzatetto e il suo neonato non voluto, sarà forse il personaggio che più di tutti diventa grande, imparando finalmente ad affrontare le emozioni, le responsabilità e le difficoltà della vita. E cambiando inevitabilmente il rapporto fra Louise e Sofia, fra le loro diverse fragilità e lo scontro fra i loro diversi punti di vista. Ma è di fatto l’intero reparto che, nel lavoro di squadra e nelle continue nascite, nelle premure e nello stress, nei turni 24/365 e nelle sale parto, nei corridoi e negli spogliatoi, nei momenti drammatici e in quelli più teneri, ma anche nelle riunioni e nelle rivendicazioni per condizioni di lavoro che non vadano contro le necessità dei pazienti, costantemente cresce e si affiata, o magari si stanca e magari molla «non per aver rinunciato all’infanzia dei miei figli, non per i turni massacranti, non per la pressione», ma per un sistema che non consente più di trattare le persone con la necessaria umanità. Fino alla partecipazione alla manifestazione finale, in giro per le strade della città per chiedere una nuova considerazione. L’ultimo atto di una continua coreografia in cui la macchina da presa danza libera nel caos organizzato degli attori, in un intreccio di vicende di finzione che, abilmente cesellate intorno alla realtà, tendono in qualche modo a una verità ancora più assoluta, sfaccettata, al tempo stesso dolce e straziante, delicata e profondamente politica. Piena del talento di un’autrice sempre più sfacciatamente brava, che si prende il tempo necessario fra un film e l’altro, che aspetta di avere realmente qualcosa da dire, e che quando lo fa trova il modo più fresco, coinvolgente e commovente possibile per farlo. Un (gran) film dopo l’altro.
Marco Romagna