SAFARI (2016), di Ulrich Seidl
Prima di cominciare urge una premessa: questa recensione sarà più che altro un attacco frontale a uno dei nostri più acerrimi nemici cinematografici, Ulrich Seidl. Un autore provocatorio, respingente, cinico, ma un autore ‘vero’, con un proprio linguaggio perfettamente riconoscibile e un’indubbia coerenza nello sbattere sempre in faccia allo spettatore le peggio cose “pane al pane, vino al vino”. È quindi per motivi filologici, in una sorta di paradossale rispetto autoriale per una persona che detestiamo, che vogliamo anche noi utilizzare quello stesso “pane al pane, vino al vino”. Ci sembrerebbe stupido inoltrarci in giri di parole: con uno così diretto, parliamo diretti, facendo ricorso al turpiloquio e agli insulti che Seidl stesso sa perfettamente di instillare e meritare. Perché quando uno è stronzo, non esiste miglior termine per definirlo che, appunto, “stronzo”. E Ulrich Seidl lo è profondamente, nel cuore di pietra e nell’anima luciferina.
Sono ormai diversi anni che il regista austriaco Ulrich Seidl si fa forte del suo sguardo cinico e impietoso, disumano e altezzoso, totalmente incapace di umiltà, totalmente incapace di provare qualsivoglia empatia per gli esseri umani (inferiori, va da sé) che inquadra. E sono ormai diversi anni che questo sguardo ci irrita, così opposto a quel tipo di documentaristica umana che tanto fondamentale è stata nella nostra formazione di individui, ben prima che di cinefili e di scribacchini. Alberto Grifi sosteneva che all’origine dell’occhio dovesse necessariamente esserci una lacrima, mentre all’origine dell’occhio di Seidl c’è solo fiele, c’è solo disprezzo, c’è solo aria di superiorità. C’è solo una svastica, potremmo riassumere, per quanto abbia sempre pubblicamente negato le sue palesi simpatie nostalgiche. Perché, giusto per fare un esempio storico, quello del regista austriaco pare sullo schermo lo stesso occhio di Goebbels quando faceva filmare gli uomini affetti da sindrome di down con le luci dal basso per far capire alla Germania quanto fossero mostruosi, e quindi da eliminare.
Mentre Ed Pincus, in punto di morte, non vedeva l’ora che tornasse la primavera per sentire di nuovo il canto delle rondini, e mentre Wang Bing si mette in cammino con i Ta’ang, sporco e stanco insieme a loro, Ulrich Seidl siede comodo sul proprio palchetto sopraelevato, cura con certosina passione l’inquadratura più consona per umiliare e disprezzare chi si trova davanti all’obiettivo e, come se fosse senza peccato, prende queste persone e le giudica, le condanna, le guarda con superiorità rendendole il più possibile disgustose. Seidl mostra – o probabilmente sarebbe meglio dire mette in scena, visto che si tratta dei “documentari” più freddamente falsi e costruiti di cui si abbia memoria – “la merda”, ma rigorosamente senza sporcarsi, e probabilmente senza nemmeno sentirne la puzza. Anche Jan Soldat la mostra, qualcuno potrebbe obiettare, ma lui ci sguazza dentro, si incatrama con i suoi personaggi, vive e soffre con loro: la sua etica è granitica, quella di Ulrich Seidl inesistente. Profondamente borghese nell’accezione più negativa del termine, a Seidl interessa solo provocare, ridendo delle disgrazie altrui, calpestando la dignità delle persone, sogghignando come un piccolo demone a ogni cedimento umano catturato dalle sue inquadrature quasi rigorosamente fisse e frontali. Quasi rigorosamente, perché con Safari, il nuovo inqualificabile e disonesto lavoro presentato fuori concorso a Venezia 2016, Ulrich Seidl sfonda in un certo senso la “sua” quarta parete: lo avevamo accusato di essere uno stronzo per le inquadrature di fronte, e lui ha “finalmente” e diligentemente dimostrato di saper perfettamente essere uno stronzo anche nelle inquadrature a mano e da dietro.
L’unica differenza con i lavori precedenti è infatti nello stile, lo sguardo è sempre quello e sempre impresentabile. Safari porta sullo schermo diversi gruppi di cacciatori impegnati, appunto, nei safari, alternando le classiche agghiaccianti interviste frontali (e gli ancor più classici e insopportabili istanti grotteschi che Seidl impietosamente mette in scena) con (interminabili) sequenze delle battute di caccia inquadrate a inseguire. Ai cacciatori non interessa minimamente mangiare la carne, vogliono solo la foto con il trofeo, vogliono solo la bella pelliccia, vogliono solo provare il brivido di uccidere, nell’ossessione del tiro perfetto. Nei loro occhi, subito dopo lo sparo, si accende una luce particolare; dai loro discorsi emerge ignoranza (i leoni passano da sovrappopolazione a specie in via di estinzione nel giro di pochi secondi) e razzismo (“Non è colpa loro se sono nati negri, ma bisogna dire che non ci hanno mai fatto nulla”); dai loro gesti si intuiscono probabili derive psicolabili. Ma non è questo il punto: a differenza di Seidl, noi non vogliamo giudicarli, riteniamo la loro passione discutibile quanto si vuole ma sincera, e del resto non sapremo mai quanti e quali discorsi “normali” il regista abbia tagliato alla ricerca spasmodica dell’animalizzazione dei suoi burattini.
Fra le uccisioni e i resoconti delle macellazioni di una zebra e di una giraffa – rigorosamente compiute dai neri, il lavoro sporco spetta sempre a loro, e portate sullo schermo da Seidl con profusione di dettagli degli intestini pieni di merda con tanto di “tac” sparato a un volume insostenibile nel momento in cui viene spezzata una zampa – il problema insormontabile del film rimane lo sguardo dell’autore, il suo ostentato menefreghismo, la sua spocchia, il suo disprezzo nei confronti di tutto e di tutti. Il gestore del parco safari parla di troppi uomini in giro per il mondo, fino a chiosare “La morte è dappertutto, se sparissimo tutti, al mondo farebbe solo che bene”; dolci biondine parlano del calibro del fucile come se fossero vestiti alla moda; incapaci nerd continuano a mancare il bersaglio salvo poi, dopo averlo colpito solo al quarto-quinto tentativo, prendere in giro la carcassa dell’animale abbattuto; vecchi appassionati non più in grado di andare in giro con il fucile si appostano nell’apposita casetta e si addormentano clamorosamente aspettando gli animali; una coppia di anziani ciccioni si spalma la crema prima di spiaggiarsi al sole e poi passa interi minuti a riepilogare i prezzi degli animali uccisi: Seidl indaga impietoso, cerca le debolezze, cerca il discorso più agghiacciante, disprezza quello che vede e lo dichiara in continuazione, con il suo altezzoso cinismo e con il suo disumano distacco. La giraffa, dopo essere stata colpita, ha un ultimo sussulto di vita. Il cacciatore non la finisce per non rovinarle il manto, e Seidl la guarda e la fa vedere morire dopo una non breve agonia. Viene in mente il cammello moribondo in Anche i nani hanno cominciato da piccoli di Werner Herzog, e appare ancor più palese quanto sia siderale la distanza fra un grande regista, emotivo e umano, e un simile vuoto provocatore. La malvagità dei nani impazziti sublimata in lacrime nelle loro risate strazianti contro la freddezza mussoliniana di chi ha sparato e di chi gode nel girare uno snuff animale. Fino all’apice del nazismo seidliano: mettere in scena lavoratori di colore che mangiano guardando fissi in macchina, costretti a non sbattere le palpebre con lo sguardo truce e atroce degli animali allo zoo per poi, non pago, rincarare ulteriormente la sua dose di razzismo mettendo al muro una domestica nera con in mano la testa di una scimmia. Con Safari, insomma, Seidl si conferma l’anti-Grifi, confezionando l’ennesimo film a sua immagine e somiglianza: disumano, antietico, profondamente stronzo. Del resto, la Resistenza, un enorme errore lo ha fatto: lasciarne qualcuno vivo.
Marco Romagna