RUE GARIBALDI (2021), di Federico Francioni

La Tour Eiffel sembra poco più che un puntino luminoso, a guardarla dall’appartamento di Rue Garibaldi. L’ennesima lama di luce che squarcia la notte di una Parigi di periferia, luogo-non-luogo geograficamente lontano dall’elegante splendore del centro ma forse proprio per questo ancora più vitale nel suo brulicare di anime e di sogni. Eppure non sono Parigi e la Francia, il punto del film. Semmai lo sono l’identità, la provvisorietà, la transizione, i rapporti umani, lo sguardo, la narrazione. Ma soprattutto lo è la ricerca di luce, di un qualche bagliore nel buio dell’intera contemporaneità occidentale. Tutti cercano una nuova luce, in Rue Garibaldi. La inseguono spasmodicamente fra le ombre delle loro difficoltà quotidiane i fratelli Ines e Rafik, ventenni siciliani d’origine tunisina alla ricerca di una nuova esistenza nel nord della Francia, mentre vivono e maturano tra quei conti correnti a tre cifre da dissimulare mentendo nelle videochiamate sorridenti alla famiglia, i lavori più umili accettati di buon grado e le chimere da facile guadagno del trading online che fanno capolino fra i messaggi di Tinder. La cerca, letteralmente, la macchina da presa, andando insistentemente a stanare i protagonisti fra le oscurità della casa, negli ambienti in penombra tagliati da un raggio di sole, nelle visuali solo parziali fra le cornici fisiche di porte e finestre. Proprio come a cercare una nuova luce è, più in generale, il cinema di Federico Francioni, di fatto di nuovo esordiente con la prima regia in solitaria dopo i lavori co-firmati con Yan Cheng. Con un film produttivamente piccolo, che solo di rado esce dall’appartamento di Villeneuve-Saint-Georges e del quale l’autore molisano ha ricoperto totalmente da solo tutti i ruoli tecnici dalle riprese al montaggio fino al mix audio, ma non per questo (anzi…) meno affascinante o meno profondamente umano, meno capace di catturare la più crepitante sincerità dei suoi protagonisti e il loro fuoco interiore, la loro (auto)ironia e le loro insicurezze, il loro coraggio e le loro sane ingenuità, le loro ambizioni e il loro quotidiano resistere – insieme – alle costanti minacce un mondo contemporaneo che il capitalismo ha forgiato iniquo e che la deriva neoliberista, nel suo progressivo rosicchiare diritti e certezze, ha reso affanno. È in questo che Rue Garibaldi stratifica la sua dialettica fra luci e ombre fino a farsi intrinsecamente politico. Nel suo fotografare un periodo di evoluzione, di crescita, ma anche di una consapevole e obbligata provvisorietà con la quale quotidianamente fare i conti. Un momento di (in)stabile galleggiamento, di lavoretti transitori, di sacrifici passeggeri, di ordinaria precarietà in una striscia di moebius destinata potenzialmente, proprio come il finale circolare che tornerà a prima dell’inizio con l’incipit di quel messaggio vocale di Ines all’origine dell’idea del film, a ripetersi all’infinito. Un momento di sospensione, in cui il presente di occupazioni precarie e sottopagate è assillante, faticoso, frustrante, ma è anche l’unica possibile strada per il futuro, quella da affrontare a testa bassa e cuor leggero per arrivare il più possibile lontano.

Non è più l’Italia tutta che sembra riemergere dal sepolcro di un tuffatore pompeiano, né la storia cinese che si concentra nel momento di uno sparo (o meglio una detonazione) fra simboli, volti e più o meno libere associazioni di idee. È semplicemente una casa. Un luogo in qualche modo protetto, in cui costruire e fortificare se stessi cercando (invano?) di lasciare il mondo esterno il più possibile fuori dalla porta, lontano dalle percezioni dell’hic et nunc, relegato agli schermi virtuali degli smartphone e quindi all’immagine “aumentata” e superficiale che si vuole dare di sé e che con pari distorsione si riceve dagli altri. Perché illudono di elidere le distanze i cellulari, e allo stesso modo conservano nel loro silicio le memorie di tempi che ora sembrano lontanissimi, ma non possono restituire il calore umano, la presenza fisica, la convivenza, la partecipazione, la verità. La casa, appunto, nel suo senso più intimo. Un luogo nel quale i ruoli del cinema documentario avrebbero imposto da una parte di aprirsi sinceri di fronte alla videocamera e dall’altra di accettare l’invito a filmare in silenzio, e che invece è inevitabilmente diventato una coabitazione di diversi mesi, in cui condividere il freddo delle serate più inclementi e i piatti caldi in tavola, i ricordi d’infanzia e le fantasticherie sul futuro, le risate più di gusto e un’intimità senza più maschere, fino a ritrovarsi amici privi di segreti che più volte eradicano i taciti accordi dell’osservazione documentaristica, abbandonando il fardello della giusta distanza per proporre direttamente a un regista che non può e non vuole più rimanere distaccato di entrare nei propri sogni – «Andiamo assieme a fare ‘sto cazzo di ristorante in Tunisia, Federì». Forse è anche per questo che l’occhio cinematografico di Francioni, con questo Rue Garibaldi meritato vincitore anche della sezione Italiana di TFFdoc al 39mo Torino Film Festival quattro anni dopo il trionfo alla Mostra di Pesaro con The First Shot, vuole rimanere sul momento di passaggio, proprio come sono di passaggio quei fari che sembrano quasi lampi fuori dal finestrino del treno mentre la corsa della locomotiva, in testa e in coda al film, continua indifferente a solcare le gallerie. Non contano tanto il punto di partenza e il punto di arrivo, conta impostare, seguire ed eventualmente correggere continuamente in corsa una traiettoria, tanto di vita quanto cinematografica. Un po’ come per una frase che fra italiano, inglese, francese e siciliano prende in prestito le sue parole da almeno quattro lingue, conta esistere insieme, conta scambiarsi, conta trovare possibili incastri. Conta la condivisione di un periodo di vita particolarmente fragile, labile, temporaneo, frammentario, e proprio per questo così importante e formativo. Un momento in cui vivere – e quindi combattere – fra le grandi difficoltà e le piccole e spesso effimere soddisfazioni quotidiane, un momento in cui determinare la propria identità dimostrando giorno dopo giorno a se stessi di farcela, un momento in cui legittimarsi sempre più come persone adulte, senza mai smettere nel frattempo di cercare il proprio posto nel mondo, senza mai smettere di voler migliorare la propria vita, senza mai smettere di sognare – e quindi di girare: dipende solo da quale lato della macchina da presa si è scelto di stare. Non è più il tempo del mobbing lavorativo tutto italiano di messaggi vocali intimidatori e di straordinari mai pagati, non è più il tempo dei sogni elettorali infranti o delle ipocrisie politiche da tentare di cavalcare in Sicilia, non è più il tempo di farsi condizionare la vita dall’ennesima app mettendosi al volante per Uber, non è più il tempo di dormire in macchina in giro per Parigi e a breve non sarà più nemmeno il tempo per le dita ustionate dalle patatine o per i ritorni a casa dagli spurghi con le scarpe sporche di merda. È solo questione di sapersi adattare, di non mollare, di avere pazienza, di rimanere se stessi nel passaggio fra il passato e il futuro. Basta una scintilla – o forse una sovrapposizione di immagini che diventa dissolvenza, e quindi desiderio – per ritrovarsi diversi, ancora più combattivi e più consapevoli. Ancora un po’ cresciuti ma mai definitivamente, perché di crescere non si finisce mai. E se fosse proprio l’essere umano, l’unica possibile luce nel buio?

Marco Romagna