IL CIELO BRUCIA (2023), di Christian Petzold
«Ieri ho sognato un giardino
nel sogno con me c’era un uomo
lui mi girava le spalle
solo perché non vedessi il suo viso
Ti prego, lasciami andare
ti prego, chiunque tu sia
com’è che sei così cieco
non vedi, c’è il fuoco sulla collina»Ivan Graziani, Fuoco sulla collina
È quello che riflette gli incendi che progressivamente si avvicinano sempre più minacciosi alla casa sul Baltico in cui i protagonisti si sono ritirati per concentrarsi in pace sui rispettivi lavori da concludere, il “cielo rosso” di Roter Himmel – in internazionale semplicemente Afire, “in fiamme”, mentre in Italia sarà Il cielo brucia –, secondo capitolo della trilogia di solitudine e rapporti amorosi frustrati con cui il tedesco Christian Petzold ritorna alla regia e al concorso principale della Berlinale tre anni dopo il fantastico di Undine. Eppure Leon, scrittore alle prese con i problemi di un secondo libro che proprio non sembra uscirgli dalla penna, quasi non li nota neppure quando viene chiamato dagli amici a guardarli dal tetto. Così come non nota i problemi dell’auto che sta per fermarsi in panne, non nota il progressivo variare dei rapporti umani e dei desideri, non nota gli animali di cui sente i versi nel bosco, non nota nemmeno quale sia il reparto, inequivocabile, in cui il suo editore verrà ricoverato dopo un malore. Come se non riuscisse a vedere il mondo intorno a lui, troppo concentrato su se stesso e sulla difensiva per riuscire a vivere prima ancora che a scrivere, troppo egocentrico, immaturo, permaloso e sentimentalmente impacciato per uscire dal suo ombelico e realmente aprirsi all’esterno, troppo scontroso, conflittuale, intollerante e incapace di relazionarsi per avere realmente qualcosa da dire. Ma anche molto più semplicemente troppo insicuro e sfiduciato per non rifiutare ogni invito, per non sprecare ogni occasione, e per non amaramente pentirsene subito dopo. È per questo che il suo “Club Sandwich”, nel suo voler parlare di una realtà che Leon non fa nulla per guardare e non riesce a capire, non può in alcun modo funzionare. Manca di reale ispirazione, di spessore letterario, di contatto con il mondo reale. E serve necessariamente passare dalla sofferenza perché anche il protagonista, dopo la rabbia per un paio di feedback negativi, possa riuscire a rendersene conto. Gli serve penare per amore e per dolore, per facciate e per mancanza, per abbandono e per lutto. Fino a scuotersi dal suo mondo chiuso e autoreferenziale, fino a riaprire finalmente gli occhi e il cuore, fino ad abbattere quel muro di distanza e autoprotezione con cui ha da troppo tempo circondato la sua emotività fino a perdere la vena creativa. In un percorso di (ri)educazione sentimentale con cui dopo il gelo ritrovare, se non proprio le lacrime di una piena e totale umanità, per lo meno le parole per raccontarla.
Del resto è prima di tutto un film sulla narrazione, Roter Himmel. Non solo quella del giovane romanziere, ma anche quella di Felix suo amico e proprietario della casa al mare attraverso le fotografie di spalle, volti e onde con cui sta completando il suo portfolio di ammissione in un’importante accademia. Una narrazione di cui si occupa anche Nadja che i due trovano già ospite nella casa per il colpo di fulmine “a distanza di sicurezza” di Leon e che solo successivamente, passando per il suo carretto di gelati e per i suoi goulash, scopriranno essere laureanda in letteratura ed esperta di Heine («Perché non me l’avevi detto?» «Non me lo hai mai chiesto»); una narrazione che in qualche modo utilizza pure il bagnino Devid, che con lei passa un paio di prime notti focose prima di preferirle Felix, con il suo racconto gay improvvisato a tavola per poi azzardare il primo bacio a sorpresa al ragazzo. Un’identità sessuale (anzi due) che è solo uno fra i tanti depistaggi attraverso cui Christian Petzold, prima ancora dei suoi personaggi, si interroga sulle potenzialità della narrazione costruendola e mettendola in scena come pura rappresentazione, attraverso il fuori campo dei controcampi negati di ciò che Leon non vuole o non riesce a vedere, attraverso i percorsi sempre arzigogolati di ogni amore (im)possibile, e attraverso lo scarto radicale nel tono e nel genere cinematografico di un’ultima sezione che arriverà come una doccia gelata a stravolgere ogni possibile idillio e precedente punto di equilibrio. In un film spiazzante, annichilente, che parte come una commedia romantica a tratti anche irresistibilmente spassosa (il cammino di sudore con i bagagli in spalla dopo la rottura della macchina, Devid che esce in giardino ancora completamente nudo mentre Leon dorme fuori mangiato vivo dalle zanzare per non sentire i suoi coiti, la corsa sulla battigia per recuperare le pagine del manoscritto che stanno volando via senza che il loro autore nemmeno se ne accorga, l’editore che ascolta e dispensa consigli per tutti tranne che per lui, o ancora i nuovi gemiti notturni salvo trovare Nadja nel letto di Felix e capire che questa volta non c’è lei con Devid) e che fra equivoci e imbarazzi si mantiene per quasi due terzi su toni leggeri pressoché inediti per il regista di Hilden, mentre sotto la cenere che letteralmente inizierà a nevicare sulla casa lungamente si carica e aspetta il momento per deflagrare improvvisa la più cupa, crudele, atroce e inaspettata tragedia. Con una dichiarazione che cade nel vuoto all’arrivo della polizia, con un cucciolo di cinghiale in fiamme fra le frasche, con la lirica straziata di un abbraccio che rimarrà eterno come un calco di Pompei. Con un libro che finalmente trova una storia e la partecipazione per raccontarla, ma anche con tutto il dolore da attraversare per riuscire a concepirlo e portarlo a termine.
Passando per le poesie con cui la Nadja di Paula Beer, giunta al terzo film di Petzold consecutivo, mesmerizza l’intera tavolata, passando per un tenersi finalmente per mano e poi a braccetto che non potrà però che rivelarsi anticamera del litigio, passando per le lunghe ore passate in totale solitudine dal Leon che emerge dal corpo grassottello e dall’aria distratta di Thomas Schubert ad autolanciarsi una pallina da tennis mentre tutti gli altri sono in spiaggia ma lui non se la sente di accettare i loro inviti, e poi ancora passando per il suo insistito addormentarsi nei momenti e nei luoghi meno opportuni buttando ripetutamente via ogni occasione e possibilità di essere creativo e felice. In un film d’amore e di morte, di atto del raccontare e di inettitudine esistenziale, di quella goffa timidezza che sconfina nella stupidità e nella paranoia di chi si sente accerchiato e non riesce a sbloccarsi, e poi di dediche finalmente sincere e accorate per le quali però, nemmeno all’ultimo, nemmeno quando si sono riaperti gli occhi sul mondo, viene in mente di alzare il telefono e chiamare una madre che non aspetta altro che una spalla su cui piangere e un ricordo per cui ringraziare. Un film di cadute in bicicletta e poi a piedi, di piatti in tavola e di isterici capricci, di racchette da volano luminose nella notte e di un inconsapevole narcisismo troppo radicato e profondo perché un reciproco desiderio possa diventare un vero amore. Un film di suggestioni viste o solo immaginate mentre qualcuno le racconta, di astrazioni che si fanno concrete come l’appropinquarsi delle fiamme, di dannosi individualismi dai quali uscire per ricominciare a guardare il mondo e di donne solari come il loro vestito rosso a fiori che catalizzano ogni attenzione fino a cambiare profondamente chi le ama. Così diverse dal soprannaturale dei poteri magici forgianti e distruttivi dell’ardente e mitologica Undine, eppure allo stesso modo dotate della medesima centralità, dello stesso magnetismo, della stessa potenza nel riplasmare le anime e i pensieri. E chissà che prima o poi non ci sia l’occasione di incontrarsi di nuovo per ricominciare dal principio senza ripetere gli errori. Questa volta guardandola, non semplicemente vedendola. Questa volta dialogandoci e soprattuto ascoltandola, non semplicemente parlando di se stessi senza nemmeno rendersene conto. Per un amore che forse sarà destinato a rimanere un ricordo, un’impressione, un sogno mai diventato realtà, un sorriso da lontano e l’eterna gratitudine per la consapevolezza di essere un’altra persona migliore di quella di prima, più gentile, più aperta, più sincera, più ispirata, di gran lunga più umana. O che forse, come l’arte, come le persone, come l’autorialità e lo sguardo del protagonista, aveva solo bisogno di un po’ di tempo per maturare e finalmente poter scoppiare senza più limiti né autosabotaggi.
Marco Romagna