«On candy stripe legs the spiderman comes
Softly through the shadow of the evening sun
Stealing past the windows of the blissfully dead
Looking for the victim shivering in bed
Searching out fear in the gathering gloom and
Suddenly a movement in the corner of the room
And there is nothing I can do
When I realize with fright
That the spiderman is having me for dinner tonight»The Cure, Lullaby
Non è un «problema», ma al massimo una «situazione» a sua volta «delicata» e non «grave», quello dei giovani rampolli ribelli e violenti che, nell’estate del 1990 messa in scena da Annarita Zambrano nel suo sorprendente Rossosperanza, le ricchissime famiglie di appartenenza spediscono a «tornare normali, come noi» in una lussuosa clinica psichiatrica privata dove «tutto quello che hanno fatto i nostri giovani ospiti rimane segreto». Il metodo più sicuro, negli interessi di quei genitori troppo in vista per poter accettare insubordinazioni, per nascondere la polvere sotto al tappeto e mantenere la propria impeccabilità di facciata, per continuare, con la stessa certosina ipocrisia con la quale selezionano ogni singolo vocabolo pronunciato in pubblico e in privato, a esercitare al di sopra di tutto e di tutti il proprio potere. Un potere multiforme, che può essere indifferentemente politico, sociale o religioso nei ruoli, negli interessi e nelle frequentazioni (non di rado in comune, specialmente alle feste), ma che è sempre e immancabilmente un potere dispotico e crudele, violento nelle sue pressioni psicologiche, nelle sue apparenze, nelle sue imposizioni e nel conformismo delle sue norme di comportamento forse più ancora di quanto sono violente le reazioni esplosive, grevi e brutali dei “folli” ragazzi che, dall’interno, lo rifiutano. Un potere nel cui alveo e sotto il cui giogo, in famiglie e declinazioni diverse, sono nati e cresciuti tutti i giovani ospiti dell’istituto, ora rinchiusi per tentare di “curarli”, di estirpare da loro il germe della sovversione, il loro vedere (anche letteralmente) alla stregua di scarafaggi a cui somministrare l’apposito veleno (o da bruciare, o da morsicare, o da guardare sbranare e morire dopo avere aperto la gabbia e liberato la tigre, o ancora di fronte all’ennesimo insulto gratuito da lasciare perdersi e annegare in una grotta marina in cui non li troveranno mai) la falsità di quegli ambienti ultra-aristocratici e politicamente esposti che, mentre con malcelato razzismo scelgono la servitù in base alla nazionalità, non possono e non vogliono permettersi alcuna minima sbandata dai binari precostituiti, tanto concentrati sulla salvaguardia dei propri privilegi di classe e dei propri filtri da non farsi il minimo problema ad aggiungere altri privilegi di classe ed altri filtri di parole soppesate, di mezze verità, di «riservatezze» e di aperte menzogne. Altri sipari dietro cui nascondere ogni stortura di famiglie intoccabili e al di sopra di tutto e di tutti, anche della minima comprensione, anche dell’umanità, anche dell’affetto per i propri figli che si preferisce emarginare, e ovviamente anche di una legge che si ritiene un ben preciso diritto dribblare, (far) riscrivere o utilizzare a proprio piacimento. Salvo poi magari stupirsi e vergognarsi di una reazione spropositata, e invece figlia di anni e anni di attriti, traumi, coercizioni, repressioni di ogni tipo.
«Tu che cos’hai fatto per essere qui?» chiede la ninfomane Marzia alla nuova arrivata Nazarena, detta Zena, durante una delle prime notti in camera insieme. «A parte la faccia da matta, sembri abbastanza normale». L’ennesimo fra i mille punti di innesco di una narrazione circolare e rigorosamente non lineare, che a partire dai Cure della Lullaby iniziale modula direttamente sullo scorrere e sugli scratch della puntina del giradischi portatile della giovane Zena la sua profondissima anima rock (o forse sarebbe meglio dire direttamente new-wave/post-punk, generi non solo apertamente citati nella colonna sonora di Rossosperanza ma sottocultura intimamente compresa, vissuta ed esperita nei modi, nel nichilismo e nelle forme di ribellione dei protagonisti) e la sua struttura episodica di sospensioni e flashback che partono da lontano per poi convergere nell’istituto e nella fuga insieme dalle sue mura. Non è certo un caso in tal senso che quando Zena avrà finalmente l’occasione di suonare di fronte a un pubblico, la sua iniziale techno-house farà fermare e addirittura lanciare oggetti agli astanti, salvo poi esplodere in danze, schiuma party e grande gioia collettiva quando a risuonare dalle casse saranno nuovamente la batteria acustica e le chitarre elettriche in la minore. L’urlo distorto di chi è (stato) carnefice, o per lo meno ribelle, ma prima ancora vittima, e ora si prende lo spazio, o almeno l’illusione, di essere davvero libero, intimamente se stesso. Che si sia disgustati rampolli del medico personale del Papa – il cui suocero nella bara era «al massimo simpatizzante, come tante persone in questo Paese», perché dire apertamente «fascista» sarebbe evidentemente suonato troppo male fra gli alti porporati ospiti a casa –, oppure di un senatore che non accetta l’ostentata omosessualità eccentrica e leopardata del figlio marchettaro. Che il proprio padre sia un ricchissimo aristocratico che chiama il suo serpente Gorbaciov, tiene una tigre in gabbia sempre affamata «per non farle perdere la sua natura selvatica» e organizza feste in maschera in cui un direttore di rete (anonimo, ma è evidente il richiamo a Gianni Boncompagni e al suo Non è la Rai) può fingere di non conoscere quella figlia del padrone di casa appena violentata nel corso dello stesso pomeriggio, o più semplicemente un genitore che, al momento della morte della moglie, ha immediatamente scelto di risposarsi senza nemmeno un giorno di lutto, provocando nel figlio una voglia forsennata di strappare a morsi dal dito dell’altra donna la fede che fu della madre, e poi di ridisegnarlo all’infinito (e magari animarlo, con le splendide sequenze co-firmate da Alessandro Rak e Dario Sansone) usando come unico inchiostro il proprio sangue.
Quattro protagonisti ambigui fino al criminale (cinque se si vuole contare il fratello balbuziente e ripetutamente emarginato o peggio ancora umiliato di Zena, che a differenza degli altri non finirà in clinica ma che forse ancor più di loro, fra un obbligato primo sorso di vodka, uno strip poker con penitenze e un tesoro inestimabile con cui abbandonare l’antipatico cugino in balia della propria stessa avidità, simboleggia la gratuità della discriminazione e la necessità di essere spietati nel prendersi la rivincita) ma mai realmente “colpevoli”, come quattro piccoli Davide contro tanti Golia che, proprio come il film di Annarita Zambrano presentato nel Concorso principale di Locarno76 pochi giorni prima di uscire nelle sale italiane con Fandango, rifiutano ogni tipo di prassi per scegliere il linguaggio più disinvolto, la derisione più grottesca del potere, la fiera posizione antisistemica in cui cercare se stessi, o una forma alternativa (poco importa se cinica e distorta, quando unica possibile) di (farsi) giustizia nella desolazione di una società irrimediabilmente corrotta. È anzi proprio nel parteggiare senza esitazione alcuna per loro e per la loro ribellione che si può rintracciare l’unica possibile nuova speranza, non certo per caso rossa come il sangue di una vendetta apparentemente privata e invece generazionale, sociale, collettiva come lo è qualsiasi lotta di classe, di un film anarchico e iconoclasta, originalissimo e inclassificabile, orgogliosamente scorretto e intimamente politico, che trova nei primissimi anni Novanta uno specchio dell’oggi e che deflagra come una variabile impazzita nell’asfittico orizzonte italiano. Un po’ thriller, un po’ coming of age, un po’ Qualcuno volò sul nido del cuculo intriso di surrealtà buñueliana, ma soprattutto gonfalone in movimento di una battaglia da combattersi con lo stesso spirito solidale con il quale la paranoica Zena, e ancor più “fisicamente” l’omosessuale Alfonso e la disinibita Marzia, sanno di doversi (letteralmente) sporcare le mani per recuperare quell’anello così importante per il semi-muto, violento e autolesionista, ma in realtà semplicemente da comprendere nella sua umanità strabordante, Adriano. Usando contro chi fa il bullo anche all’interno della struttura la stessa libertà con cui si approcciano al rock alternativo, alla fantasia erotica, alla masturbazione, al sesso, alle droghe sintetiche distribuite quasi come una blasfema eucarestia. Trasgressioni con cui opporsi all’autorità, alle stranianti e ridicole terapie di gruppo, ai ricordi altoborghesi di un potere costituito altezzoso e capriccioso nello schiacciare, fino all’aggressività della rivolta e anche più in là, ogni tentativo di emancipazione. Non resta che riprendersela, questa libertà, disillusi e incazzati eppure ancora sognanti, e liberare la tigre per guardarla mentre mangia politici, prelati, faccendieri, puttanieri, stupratori, falsi e infami. Forse non sarà sufficiente per abbattere il sistema, ma almeno un (bel) po’ di male glielo farà. Come un ruggito di libertà. Come una disinfestazione. Come un fiammifero con cui riaccendere almeno un filo di speranza, illuminando la propria “folle” dignità.
Marco Romagna