“Il cuore rallenta la testa cammina
in quel pozzo di piscio e cemento
a quel campo strappato dal vento
a forza di essere ventoporto il nome di tutti i battesimi
ogni nome il sigillo di un lasciapassare
per un guado una terra una nuvola un canto
un diamante nascosto nel paneper un solo dolcissimo umore del sangue
per la stessa ragione del viaggio viaggiare
Il cuore rallenta e la testa cammina
in un buio di giostre in disusoqualche rom si è fermato italiano
come un rame a imbrunire su un muro
saper leggere il libro del mondo
con parole cangianti e nessuna scritturanei sentieri costretti in un palmo di mano
i segreti che fanno paura
finché un uomo ti incontra e non si riconosce
e ogni terra si accende e si arrende la pacei figli cadevano dal calendario
Yugoslavia Polonia Ungheria
i soldati prendevano tutti
e tutti buttavano viae poi Mirka a San Giorgio di maggio
tra le fiamme dei fiori a ridere a bere
e un sollievo di lacrime a invadere gli occhi
e dagli occhi cadereora alzatevi spose bambine
che è venuto il tempo di andare
con le vene celesti dei polsi
anche oggi si va a caritaree se questo vuol dire rubare
questo filo di pane tra miseria e sfortuna
allo specchio di questa kampina
ai miei occhi limpidi come un addiolo può dire soltanto chi sa di raccogliere in bocca
il punto di vista di Dio”Khorakhanè (a forza di essere vento)
Fabrizio De Andrè
“Non sono razzista. Ma gli zingari…”. Una frase che è impietoso specchio dell’Italia attuale. Una frase insensata, ossimorica, contraddittoria. Una frase profondamente xenofoba prima ancora che infelice, orrendamente contestualizzata nella perfetta legalità degli sproloqui che invocano le ruspe in televisione e davanti a robotiche folle urlanti. Adesso sorridiamo a leggere i rapporti della polizia di New York, che solo poche generazioni fa definivano gli italiani reduci dalla terza classe una fucina di pulci e criminalità, mentre con l’altra mano ci tappiamo gli occhi per non vedere l’ondata di razzismo che, pericoloso quanto inesorabile, dilaga più o meno per tutto lo stivale, per non dire in tutta Europa. Integrarsi non è semplice, quando le tradizioni sono così differenti e così profondamente radicate, farlo nella paura generale e nel rifiuto diventa pressoché impossibile.
Ecco, Romeo e Giuletta, nuovo lavoro di Massimo Coppola presentato fuori concorso al Festival del Film di Locarno, parla di tutt’altro. Ma questa integrazione, seppur con risultati a tratti altalenanti, l’ha cercata seriamente, e il merito non è da poco. È stata una mano tesa verso il campo nomadi di Tor de’ Cenci, alla periferia di Roma, nel quale vivono Nino e Mary, sedicenni di origine bosniaca. Ed è estremamente interessante come sia stato il Cinema, o meglio il metacinema, la chiave per scardinare ritrosie e differenze culturali. Con la collaborazione di Shakespeare, l’atto stesso di girare diventa collante sociale e aggregazione, occasione per eliminare ogni tipo di barriera.
La forma, quella del documentario metacinematografico, non sarà particolarmente originale, ma si adatta come un vestito su misura da una parte alla narrazione, dall’altra ai non pochi spunti ‘culturali’ presenti durante il lungometraggio. Con il pretesto di una versione rom della tragedia shakespeariana, Massimo Coppola è presente in prima persona sulla scena durante il casting, le prove, le riprese ed i problemi. Da una prima fase, nella quale le difficoltà di lettura dei ragazzi vengono pian piano risolte con allenamento e voglia di ‘fare del Cinema’, si passa ben presto all’impostazione dei protagonisti, con l’aiuto di un Valerio Mastandrea che, come già ne La mia Classe di Daniele Gaglianone, giganteggia nel ruolo di se stesso. Ma, dalla scelta dei protagonisti ad un bacio maledetto mai avvenuto, ben presto le famiglie di Nino e Mary si rivelano dei moderni Montecchi e Capuleti, mentre il film va avanti.
Il problema? Pur partendo da buone premesse ed intenzioni, e rivelandosi nel complesso un film gradevole ed interessante, va detto che Romeo e Giulietta soffre -fortunatamente non in toto- di un approccio a tratti discutibile da parte del regista. A stridere, principalmente, è un brutto scivolone esattamente in ciò che si voleva combattere. A partire dalla scelta -opinabilissima- di attaccare una Gopro sulla testa di uno dei più giovani abitanti del campo per mandarlo in giro a filmare la propria vita e poi intervistarlo, trovata che non può che ricordare l’ignobile I Bambini Sanno di Walter Veltroni, Coppola si rivela troppo incalzante nelle interviste, in particolare con la richiesta se fosse meglio stare in una casa in Bosnia o nel campo in Italia. La domanda, che sarebbe di per sé innocente, è posta con tale insistenza da sembrare quasi una domanda retorica, sottendendo una sorta di superiorità culturale che la renderebbe eticamente inaccettabile. Il bambino, ovviamente, risponde che “la casa era più grande, e la Bosnia più bella”. Una caduta sicuramente involontaria, probabilmente inconsapevole, ma grave, e che solo una ragazzina riesce parzialmente a limare, rispondendo alla stessa domanda che la casa è dove sta la famiglia, e non necessariamente un luogo fisico definito. Bastano i cari per avere la felicità. Una risposta di una maturità esemplare, affresco di una cultura nomade che esiste da sempre, orgoglio di un Popolo.
In conclusione, Romeo e Giulietta è un film imperfetto, è vero, ma rimane un prodotto interessante ed appassionato, senza dubbio da difendere. Non mancano, d’altra parte, momenti molto buoni, di forte interesse storico-culturale e di quasi commovente strazio umano. In particolare l’intervista all’anziano, nonno del bimbo-cam, che racconta con occhi lucidi e voce ferma i tempi del conflitto jugoslavo. L’arrivo dei serbi, le torture subite, le unghie strappate ed i neonati lanciati come da una novella Rupe Tarpea. Ma anche la passione che nasce, pura, per quel mezzo che fotogramma dopo fotogramma cattura e restituisce la realtà. Parte il motore, Romeo e Giulietta si dichiarano ancora una volta amore eterno, la macchina da presa si lancia in un carrello circolare intorno agli innamorati. “Stop”, spunta il regista quasi dal nulla, “Bravi, abbiamo finito. Abbiamo fatto il Cinema”. Forse qualcuno, dopo questa esperienza, si sentirà un po’ più a casa. E forse qualcun altro, dopo la visione, capirà quanto siano fuori luogo le ruspe ed i deliri razzisti che sempre più spesso accompagnano, dal telegiornale, le nostre cene.
Marco Romagna