5 Maggio 2021 -

RIFKIN’S FESTIVAL (2020)
di Woody Allen

«… i critici hanno parlato di finale moralistico e a lieto fine (lui che all’aeroporto decide di lasciare la donna amata al proprio marito e si allontana solitario nella notte) senza rendersi conto che si trattava di una ripresa della sequenza dell’inizio, fisicamente riprodotta da Casablanca: salvo che all’inizio il sacrificio era di Bogart, accompagnato nella notte dal capitano francese Claude Rains, e alla fine il sacrificio é di Allen, accompagnato dal fantasma di Bogart. E dunque non c’é né tenerezza né moralismo, ma la quieta ironia con cui Allen autore vede Allen personaggio, prigioniero dei propri miti intellettuali e delle proprie frustrazioni (lenite appunto dal vivere sempre dentro una continua citazione)».
Umberto Eco, introduzione alla prima edizione italiana di Woody Allen, Saperla lunga

Correvano i primi anni Settanta e anche in Italia si cominciava a conoscere Woody Allen, inizialmente autore amato da una nicchia di intellettuali tra i quali Umberto Eco, autore del precedente brano, tratto dalla sua prefazione al libro Saperla lunga, una prima raccolta di testi di quel comico ebreo newyorkese tradotta per la Bompiani nel 1973. Una lettura più che mai lungimirante, quella di Eco, capace di dipingere sin dagli albori un Woody Allen in qualche modo “condannato” a vivere dentro le continue citazioni dei grandi classici del cinema da lui sempre amati. Tanto che sono passati quasi cinquant’anni, e quasi cinquanta film, e Woody Allen in quello che sarà probabilmente la sua ultima opera – più che per anzianità per le ben note vicende che lo hanno reso persona non grata a un sistema produttivo ipocrita -, torna a essere ancora rigidamente ancorato, ingabbiato in continue citazioni, laddove ormai non cita tanto quel cinema classico da lui amato quanto se stesso, e il suo cinema che sui riferimenti colti si è costruito.
Rifkin’s Festival é un atto d’amore per i grandi cineasti del passato, con una manicheistica sfiducia verso i giovani, rampanti, autori, della settima arte che Allen evidentemente non riconosce, anche perché non li conosce. Il cineasta torna ad ambientare un film durante un festival di cinema dopo Stardust Memory, opera del 1980, dove la vicenda gravava attorno a una retrospettiva omaggio al regista protagonista; un film che voleva rappresentare il suo , ancora in un compiaciuto rifarsi a dei modelli. In Rifkin’s Festival, la dialettica cinema classico/cinema contemporaneo è rappresentata dalla coppia di protagonisti newyorkesi. Il marito, Mort, espressione dell’autore e interpretato da un attore affezionato quale Wallace Shawn che era già in Manhattan, è uno scrittore che ama Fellini, Godard, Truffaut e Orson Welles. La moglie, Sue, invece è una press agent che il cinema contemporaneo deve seguire per lavoro, organizzando interviste, conferenze stampa, party. Non giudica i film e i filmmaker per cui lavora, ne è a servizio. Forse ha anche perso uno spirito critico, se mai l’ha avuto. I due si trovano al Festival di San Sebastián, dove lei sta curando un film.
Il cinema attuale diventa ora emblema di quella mediocrità intellettuale contro cui Allen si é sempre scagliato. Quel professore universitario che faceva la fila al cinema di Io e Annie era il prototipo di una galleria di vanesi e farfalloni che si sentono depositari del sapere. Prototipo qui incarnato nel filmmaker francese Philippe, interpretato da Louis Garrel. Ambizioso, si reputa il più grande regista del mondo, convinto che il suo film pacifista convincerà israeliani e palestinesi a deporre le armi; sogna poi una proiezione all’ONU con Sue che gli dà corda nel merito, vedendo la cosa dal suo punto di vista commerciale. Philippe è la metafora della decadenza del cinema contemporaneo.

Nel triangolo Mort/Sue/Philippe, Woody Allen mette in scena ancora una volta una sua classica paranoia di gelosia, quella di vedersi, lui solido intellettuale, lasciato da una donna che si fa ammaliare da uno di questi pseudo-intellettuali piacioni. Succedeva già in Manhattan, ed era un tema centrale in Crimini e misfatti. Woody Allen si incarna nella figura di Mort, ometto basso, tarchiato e pelato di mezza età, con una moglie più giovane e piacente. Ma si concede una quasi avventura, quasi avvolta in uno stato onirico, con la bella dottoressa locale. Qui però emerge un altro filone della filmografia di Woody Allen, quello più deteriore, ovvero il filone turistico stereotipato, fatto di avventure sentimentali esotiche, di Vicky Cristina Barcelona o di To Rome with Love. Tornano anche personaggi simili come il pittore, compagno della dottoressa, ripreso dal personaggio di Javier Bardem del film barcellonese. Ma va detto che almeno la fotografia di Vittorio Storaro cattura la solarità della città basca di Rifkin’s Festival. Una visione mai scontata che testimonia della valorizzazione che Allen ha sempre saputo fare delle città che ha adorato come di quelle che ha odiato, New York o Los Angeles.
Woody Allen si congeda, probabilmente, con un film sulla morte del, grande, cinema. Si tratta però di una visione davvero semplicistica, che mette in discussione la sua stessa cinefilia. Sembra che voglia dirci che la sua filmografia si salva in quanto debitrice di quella cultura cinematografica classica che le nuove generazioni di filmmaker non conoscono più. Una visione assai riduttiva che riflette un sentimento aulico diffuso in realtà, in vari campi artistici, di contrapposizione tra classicità e contemporaneità, dove la seconda viene negata da chi si sente permeato dalla prima. Spiace che Allen non conosca autori contemporanei come Lav Diaz, Hong Sangsoo o Albert Serra, solo per fare alcuni nomi. Ma la stessa cultura cinematografica esibita nel film appare davvero povera. Truffaut, Godard, Fellini, Buñuel, Bergman e Welles sono certamente dei capisaldi, sono i primi numeri delle monografie del Castoro Cinema, ma la collana è poi arrivata al numero 236. Persino Walter Veltroni sa spaziare oltre. Mort racconta orgoglioso di una sua conferenza sui debiti pasoliniani del cinema di Bertolucci, roba da Bignami del cinema italiano. Woody Allen dà al personaggio di Louis Garrel, emblema del cattivo cinema, il nome del di lui padre, Philippe, cineasta con le sue stesse ossessioni, l’amore, la gelosia e il cinema, ma rese in modo ben più viscerale, catartico rispetto al suo freddo intellettualismo. Vogliamo sperare che sia solo un caso e che Allen non abbia reputato di farne una parodia. Eppure una volta, in Io e Annie, Allen mandava i suoi personaggi a vedere Il dolore e la pietà.
Bisogna pure avere dei modelli cui ispirarsi, come sosteneva il protagonista di Manhattan all’amico che gli rinfacciava di atteggiarsi a Dio. Allen li ha sempre avuti. E ora propone una serie di scene in bianco e nero, perlopiù dei sogni o delle visioni di Mort, che riprendono reinventandole scene di classici come , Jules e Jim, L’angelo sterminatore, Il settimo sigillo. Fa disputare una partita a scacchi tra Mort, al posto di Max von Sydow, e la bergmaniana Morte: ancora un giochino ridondante nella filmografia del regista che già in Amore e guerra faceva danzare il protagonista con la Morte. E il paragone evidenzia anche la superiorità delle sue citazioni rielaborate, distillate o mimate, sulla guida di fantasmi come quello di Bogart, rispetto a quelle che vogliono essere letterali e filologicamente vicine ai modelli di riferimento. Woody Allen vuole ancora una volta porsi come colui che vive fuori dal tempo, che non può più dire che New York esiste ancora in bianco e nero, ma che può dirlo per il cinema. Ma tutto ciò, in Rifkin’s Festival, si traduce in un campionario di divertissement triti e ritriti. Un finale un po’ troppo fiacco per una carriera cinematografica che ha avuto delle punte così brillanti.

Giampiero Raganelli

“Rifkin's Festival” (2020)
88 min | Comedy | Spain / USA / Italy
Regista Woody Allen
Sceneggiatori Woody Allen
Attori principali Wallace Shawn, Michael Garvey, Damian Chapa, Bobby Slayton
IMDb Rating 6.1

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