RIDE (2018), di Valerio Mastandrea

Fa male ritrovarsi a scrivere queste tutto sommato fredde parole. Perché il cinema italiano deve tanto a Valerio Mastandrea, attore fra i migliori della sua generazione e noto incallito cinefilo, profondamente intelligente e sinceramente appassionato nel conoscere alla perfezione il mezzo e le sue potenzialità espressive. A lui, produttore fino al termine del montaggio con tanto di lettera aperta a Martin Scorsese per trovare gli ultimi fondi, si deve la conclusione postuma del magnifico Non essere cattivo dopo la morte dell’amico Claudio Caligari, e scorrendo la sua filmografia come interprete è possibile ricordarlo impegnato in buona parte dei lavori più importanti degli ultimi anni, dal finanziere che si fa corrompere da Il caimano secondo Moretti al Gramellini senza qualità che Marco Bellocchio dipinge in Fai bei sogni, dalla Ruggine di Gaglianone al Fiore di Giovannesi. Chiunque frequenti un minimo le realtà festivaliere, in testa Venezia ma anche Torino dove è stato presidente di giuria, e altrettanto dicono i frequentatori dei cinema romani, ha avuto occasioni pressoché infinite di vedere Mastandrea pazientemente in fila in mezzo alla stampa e al pubblico, con al collo il suo accredito delegazione ottenuto per tutt’altro film, pronto a entrare in sala a vedere lavori di qualsiasi nazionalità e autore, interessato, accalorato, entusiasta, e al contempo sempre posato e maturo, umile, disponibile, generoso, profondamente simpatico. Tanto che dal suo esordio dietro alla macchina da presa ci si aspettava – un po’ come fu nel 2006 per il ben più riuscito Anche libero va bene di Kim Rossi Stuart – qualcosa di profondamente sentito e personale. Magari imperfetto, magari ondivago, magari sbalestrato, ma intimo come un tarlo, come una storia che si sente il bisogno di raccontare da tempo. Caratteristica che Ride, in concorso con i suoi indubbi pregi e i suoi troppi difetti al Torino Film Festival e quasi contemporaneamente uscito nelle sale italiane, parrebbe purtroppo cercare senza riuscire a trovarla.
Certo, c’è l’impegno politico di Valerio Mastandrea, che a tredici anni dal cortometraggio di esordio Trevirgolaottantasette torna a circumnavigare – con tanto di bestemmia telefonica perfettamente sintetica nel rinforzare il concetto – le morti bianche, c’è il suo interessante voler trattare l’elaborazione del lutto con le forme di una commedia degli equivoci tutta di paradossi e scoperte esagerazioni che annullano ogni rischio di facile e lacrimosa retorica, e c’è alla base, apprezzabile e pulsante, un profondissimo amore per i propri personaggi, la moglie, il figlio e il padre impegnati nei pochi giorni che precedono il funerale di chi li ha lasciati anzitempo in fabbrica. Caratteristica senza dubbio rara e preziosa, che ammanta lo sguardo di Mastandrea di una tenerezza e di una sincerità di intenti che non capita spesso di trovare, tanto meno in un esordio. Ma in Ride, fra le lacrime che una moglie colta alla sprovvista non riesce a versare, le continue prove di un bambino per un’intervista che non avrà mai luogo anticipo di un amore immaginato e la delicatezza di un anziano che insegue un aquilone, ci sono anche troppe sbavature, quasi come se Mastandrea, pienamente a suo agio nella direzione degli attori e accorato nel metterli in scena, avesse ancora qualche problema nel trattare e gestire l’aspetto della narrazione. Ci sono simbolismi surreali nemmeno particolarmente ficcanti che in un certo senso entrano a minare la necessaria asciuttezza del film, ci sono apparizioni finali non del tutto convincenti pur nella loro poetica, ci sono troppi istanti che richiedono senza reale motivo la sospensione dell’incredulità, ci sono un po’ troppe scelte tecniche banalotte di musiche alzate di volume insieme all’emozione e poi interrotte all’improvviso, e soprattutto c’è un personaggio – quello del fratello/cognato/figlio/zio che invece del lavoro ha scelto la criminalità interpretato da Stefano Dionisi – che fra un ruolo troppo forzato e un po’ pretestuoso nel suo porsi come esatto contrario speculare del defunto fratello, troppi dialoghi telefonati e qualche aperta raffazzonatura di sceneggiatura, in testa quando viene preso a schiaffi da un padre contro cui sta puntando la pistola durante il crollo emotivo del criminale in camera ardente, finisce – ahinoi – troppo spesso per sfiorare il ridicolo involontario.

Guarda direttamente a Claudio Caligari, Valerio Mastandrea. Lo fa nelle ambientazioni sulla costa laziale, dove Nettuno prende il posto che fu di Ostia lontano ma non troppo dall’enormità fagocitante di Roma. Lo fa nella coralità del racconto, con i tre protagonisti Carolina (una magnifica Chiara Martegiani che tiene praticamente da sola sulle spalle il peso del film), Bruno (il piccolo Arturo Marchetti) e Cesare (Renato Carpentieri, ormai sempre più sicurezza nel cinema italiano) pronti a intrecciare i tre filoni narrativi in una ben precisa riflessione sui paradossi di una morte assurda ed evitabile, paradigmatica della famiglia di oggi e di una società contraddittoria come quella vicina di casa interpretata da Milena Vukotic che ha appena finito di parlare del superamento della paura della morte per poi ritrovarsi in pieno attacco di ipocondria dopo un’innocua caduta. Lo fa nel dedicare apertamente il film «a chi resta», a chi soffre una mancanza, a chi si sente inadeguato nell’elaborazione della tragedia, a chi è costretto a superare la perdita, e poco importa quale sia il modo in cui gli viene naturale farlo. Lo fa con le guerre sindacali in cui muoiono solo gli operai, così vicine a quei documentari militanti con cui il regista di Arona aveva esordito prima ancora del suo inestimabile trittico Amore tossicoL’odore della notteNon essere cattivo, così vicine a quello stesso proletariato che Caligari tanto amava e conosceva, così precise nel mettere in scena i margini e le zone d’ombra della società, e al contempo così concentrate nel delineare il fallimento e i sensi di colpa. Quelli di un padre ex-sindacalista che ha visto il figlio morire in quel posto di lavoro che lui stesso gli ha lasciato senza poter far nulla per aiutarlo, quelli di una moglie che, nel suo dover rimanere lucida per l’organizzazione di un lutto inaspettato, non riesce a piangere e a stare male come vorrebbe nemmeno riascoltando “le loro” canzoni, quelli di un bambino che nemmeno di fronte alla morte del padre riesce a smettere di fantasticare su quella (non) promessa della bella compagna di classe di cui vorrebbe ottenere le attenzioni, mentre si rende conto che nelle reazioni di sua madre c’è qualcosa di strano, qualcosa che non torna: perché Carolina Ride ancora? Che fine hanno fatto le sue lacrime di vedova?
C’è la prima e storica ex del marito che Carolina non aveva mai conosciuto, oltremodo distrutta di fronte a una moglie calma di fronte alla sua ridicola esasperazione del dolore. C’è chi aveva giocato a calcio con suo marito in gioventù, e adesso lo ricorda come un potenziale campione. C’è una coppia di paradossali amici che annuncia abbracciata il proprio divorzio, parlando senza rendersi conto del loro cinismo di come l’amore di Carolina non potrà mai finire. C’è una tuta del Borussia Dortmund come unico possibile indumento nero, c’è un disperato giro in bicicletta nel quale strappare i necrologi in giro per la cittadina per non arrendersi all’evidenza, c’è l’inspiegabile serenità di chi riesce a lavarsi e a mangiare come se non fosse successo nulla, ma c’è anche, a far da contrappunto, un’ultima cena ancora quotidianamente preparata in attesa che, passando per una simulazione del cognato, sia il sogno a sancire un ritorno impossibile e destinato a esaurirsi nel giro di pochi istanti. Del resto, anche nella selva di convenzioni sociali e di accettazioni o meno dei comportamenti, non esiste un modo “giusto” per elaborare il lutto, ma ogni reazione è legittima, ogni reazione è possibile, ogni reazione è personale e difficile superamento. Quella di Carolina nei confronti del marito è continuare ad aspettarlo, illudendosi che torni ancora una volta ad aggiungere il sale alla pasta, come sempre sciapa quando è lei a cucinarla. Ascoltando a ripetizione i messaggi vocali, organizzando tutto quel che serve per i funerali pentendosi di aver accettato quelli pubblici e pieni di telecamere, confrontandosi con il figlio e sfogandosi con il cognato, fino a quando le sue lacrime non verranno sublimate in una (non particolarmente convincente, va detto) torrenziale pioggia in salotto come se fosse la sua casa a versare ciò che la proprietaria neo-vedova sembra avere nel cuore ma non nel fondo degli occhi. Ed è un peccato, quindi, che così tanta carne al fuoco e così tanta libertà umana e cinematografica vadano progressivamente a perdere efficacia di fronte a una narrazione sghemba, a tratti apparentemente indecisa sul registro da tenere, e senza dubbio danneggiata da un personaggio sbagliato che finisce per trascinare anche gli altri nelle sue contraddittorie dicotomie. Tanto che, da qualche parte dell’approcciarsi razionale, rimane la convinzione che l’ipercinefilo Valerio Mastandrea sia perfettamente conscio dei limiti del suo film d’esordio, sappia perfettamente di non aver portato a termine fino in fondo quello che avrebbe voluto fare, ma sappia anche quali sono i suoi punti di forza da cui ripartire per aggiustare il tiro nella definitiva maturazione, incanalando definitivamente la sua carriera da regista verso quella dell’autore etico e umanissimo, generoso e profondamente sincero, che può e deve essere. Perché, in questo debutto promettente quanto profondamente imperfetto, per non dire apertamente “brutto”, lo sguardo e il cuore ci sono, e pure tante idee brillanti e un indiscutibile talento. Quello che manca, a questo punto, è il colpo di lima, è il cesello sulla “storia” per renderla definitivamente compatta e coerente. O forse, più semplicemente, è il riuscire a fare emergere la “storia” giusta, quella che Mastandrea, consapevolmente o meno, ha da sempre al centro dell’anima, nella più personale intimità che da sempre gli accende il fuoco artistico ed emotivo. Siamo certi che, dopo un film riuscito solo in parte, la saprà trovare molto presto. Si tratta solo di avere pazienza.

Marco Romagna