RHINO (2021), di Oleg Sentsov
Basterebbe forse la folgorante sequenza iniziale. Uno straordinario lavoro di puro linguaggio cinematografico sul tempo, dal rientro a casa di un bambino già violento al suo uscire dalla stessa porta ormai adulto per iniziare la sua personale scalata nel crimine, nella strabiliante orchestrazione di un (apparente) pianosequenza che, nel suo snodarsi sinuoso ed elaboratissimo per le stanze e i cambi di luce lungo le tappe dell’infanzia e della gioventù, riassume i primi decenni del protagonista fra la veglia funebre del padre e il matrimonio della sorella, fra le partenze per il militare e la gioia del ritorno, fra i litigi e le riconciliazioni di famiglia, fra le feste tutti insieme e i nipotini da prendere per la prima volta in braccio. Forse lo stesso tempo che, per un’accusa del tutto infondata di terrorismo, una falsa confessione estortagli con torture e minacce d’altri tempi e un processo-farsa di testimoni che si sono poi scoperti allo stesso modo vittime di pressioni e intimidazioni per costringerli a dichiarare il falso, il regista ucraino Oleg Sentsov ha dovuto forzatamente trascorrere in carcere prima di tornare libero e poter finalmente realizzare Rhino, che sarebbe dovuto essere il suo secondo film, con tutto pronto per girarlo nell’estate del 2014 giusto un paio d’anni dopo il brillante Gamer d’esordio, e che invece l’arresto nell’aprile immediatamente precedente alle previste riprese e il lungo tempo in coercizione hanno trasformato, proprio come il (grande) cinema trasforma il protagonista da bambino ad adulto e poi da spietato gangster a contrito e umanissimo penitente soffocato dai sensi di colpa, in quest’opera terza pronta solo per gli Orizzonti veneziani della Mostra 2021, con in mezzo il meta-teatrale Numbers diretto dal carcere con l’ausilio puramente tecnico e “fisico” del co-regista sul set Akhtem Seitablaev. Un tempo, per Sentsov semplicemente “reo” come tanti altri intellettuali di non avere mai accettato l’invasione e l’annessione della sua Crimea alla Russia putiniana, che è stato di detenzione e di soprusi, di palesi ingiustizie persecutorie e di cavilli per negargli l’estradizione, defraudato della cittadinanza e condannato da innocente a vent’anni che solo lo scambio di prigionieri del 7 settembre 2019 hanno accorciato a cinque, dopo un incubo di reiterati abusi rivelatisi sordi a ogni appello per la liberazione più volte piovuto da tutto il resto del mondo.
Eppure Rhino non è esattamente un film sul tempo. Lo lambisce, lo utilizza, lo mette genialmente in scena, lo lascia agire, ma il tempo è “solo” un suo bisogno imprescindibile, necessario perché le persone possano cambiare e i loro rimorsi arrivare a maturazione, perché il loro fardello interiore possa crescere fino a svelarsi progressivamente in tutta l’insostenibilità del suo peso. Un tempo in cui perdere tutto e ricominciare, un tempo da rievocare e da aspettare, un tempo da lasciar passare e da (ri)vivere nella struttura a flashback, perché non è tanto la criminalità a interessare Oleg Sentsov quanto i suoi effetti a lungo termine, il suo continuare a scavare nei ricordi, il suo insistito ripresentarsi nella coscienza sotto forma di ferite mai rimarginate, di cicatrici interiori, di soffocanti afflizioni. Le più estreme conseguenze delle proprie più estreme azioni, nel lento e inesorabile non poter metabolizzare, nel non riuscire in alcun modo a perdonarsi per ciò che si è fatto, nel bisogno assoluto di liberarsi degli orrori commessi con una confessione a cuore aperto, e magari di potersi finalmente redimere accettando, volendo e se necessario implorando il castigo.
Non è un caso che siano gli anni Novanta post-sovietici, quelli in cui si innesta la doppia e opposta parabola criminale e umana del protagonista, prima sempre più «animale» nella sua sfrontatezza spietata fino ritrovarsi con il soprannome di rinoceronte e poi uomo forse per la prima volta realmente fragile, distrutto di fronte ai cadaveri della moglie e della figlioletta senza poter dissipare il dubbio atroce che quel loro incidente d’auto potesse essere un attentato di vendetta trasversale nei suoi confronti, e annichilito dal ripresentarsi dei fantasmi degli innocenti finiti per sbaglio sulla traiettoria delle pallottole della sua cieca vendetta. Anni di una libertà illusoria, se si vuole leggere l’Ucraina di Rhino come uno specchio di quella attuale, in cui la destalinizzazione ancora lasciava spazio a quei metodi violenti e ricattatori del KGB – emblematica la sequenza della convocazione alla stazione di polizia, per “convincere” il protagonista a collaborare sbattendogli in faccia i numeri del calendario e quel dossier che avrebbe potuto condurlo al carcere oppure, a seconda delle sue risposte, non essere utilizzato – così simili a quelli che le autorità della Federazione Russa di oggi hanno saputo usare ancora una volta per reprimere l’opposizione del regista, e che le mafie di ogni tempo e di ogni luogo hanno sempre saputo ricopiare identici. Fino a farlo dire quasi espressamente a Rhino, in quel nemmeno troppo sibillino «noi e la polizia facciamo lo stesso lavoro» perfettamente consapevole di ogni ruolo e di ogni regola del gioco. Ma i Novanta ucraini vogliono dire anche anni di gangster divisi in fazioni, un clan contro l’altro proprio come oggi il Paese è diviso fra la parte indipendente e quella (ri)diventata russa, fra una cittadinanza e l’altra, fra un’idea e l’altra, fra un’appartenenza e l’altra, fra un crimine – questa volta bellico – e l’altro. Oleg Sentsov suggerisce il parallelismo fra risse e rapine, estorsioni e agguati, intimidazioni e puttane con cui ripetutamente tradire per poi pentirsene, in una scalata nel mondo della criminalità organizzata che in realtà è un sempre più profondo precipitare nell’abisso, progressivamente inghiottito prima dal declino morale e poi dal senso di colpa, prima ‘drugo’ impenitente con tanto di citazione quasi esplicita della camminata in gruppo con bastoni di Arancia Meccanica e poi figura per molti versi cristologica, inchiodata al pavimento nel sangue e nel crescente dolore. Fino a quel punto di non ritorno da cui decidere di fuggire e di cambiare vita, salvo doversi dolorosamente rendere conto che non basta voltare pagina e fare finta di nulla: prima o poi il passato busserà di nuovo alla porta, e sarà inevitabile farci i conti.
Una parabola che si innesta per molti versi nel solco dei gangster movie di dolore, redenzione e sacrificio già del miglior Takeshi Kitano, con le stesse esplosioni improvvise e spesso ironiche di violenza (la torta in faccia che diventa rissa nella sequenza del matrimonio, per esempio), sulla medesima traiettoria che procede inesorabile e umanissima verso il più straziato dei melodrammi, quasi a chiudere un ideale dialogo interno tutto veneziano che risponde e rilancia tanto al delitto e castigo dello Schrader di The card counter quanto alla Fede del Reflection di Vasyanovich. Del resto non è difficile immaginare come sia in realtà una confessione a Dio, quell’ininterrotto flusso di coscienza con cui “il Rhino” Vova si apre nel chiuso di un’automobile al suo anonimo e misterioso interlocutore, trait d’union fra i flashback che in ordine cronologico ricostruiscono il suo percorso inversamente proporzionale di ascesa e di caduta, di durezza e di tormento, di traditore e di tradito. Fra la fidanzata incinta e le torture fisiche e psicologiche inflitte a donne e bambini per ottenere informazioni, fra lo scoppiettante matrimonio con Maryna e i suoi ritorni a casa odorando di altre donne, fra il funerale della madre e quella manina indimenticabile che emerge fra le lamiere contorte, fra le allucinazioni e il lasciarsi andare, fra una pistola gettata nel fiume e una fuga oltre confine nascosto su un qualche camion, fra la nuova vita da taglialegna e i sicari sotto casa da far sparire nella neve, fra le rese dei conti e l’orrore per se stesso dietro alla portiera posteriore di una macchina. Non resterà che ritornare, in treno verso le proprie responsabilità, verso l’auto dell’ultima confessione, verso le armi lanciate via offrendo il costato «per mia figlia, per Maryna, per me stesso» e per tutti gli altri. Un consapevole donarsi al martirio, forse l’unica residua strada per la salvezza. E chi saremmo noi, per impedire che sia fatta la volontà di un uomo?
Marco Romagna