RESURREZIONE (2019), di Tonino De Bernardi
Tonino De Bernardi torna a filmare la vita che gli scorre attorno, questa volta anche con gli occhi (e le parole) del Tolstoj più mistico, quello di Resurrezione. Il film, omonimo, è una struttura densa e articolata dall’ampio respiro che si slabbra tra letture, illuminazioni e ricordi. Innumerevoli accensioni che dalla scrittura del genio russo ristrutturano un nuovo discorso sulla rappresentazione e sul suo ampliamento in potenza infinito. Dieci anni di riprese, come sempre artigianali e autarchiche, che guardano direttamente il testo, e che lo specchiano giungendo con semplicità a noi e al mondo. Lontano dall’urgenza di Ifigenia, dove il testo tragico greco veniva rivisitato metaforicamente come spettro dell’attuale realtà migrante, Resurrezione guarda a una metafisica astratta e performativa dove i protagonisti si trovano costantemente a scavallare la macchina da presa mostrandosi nudi al suo obiettivo. Un viaggio nel tempo e nello spazio, presentato per la prima volta fra le Onde del 37mo Torino Film Festival, che lascia il respiro della decostruzione e della pura libertà creativa. «Il misticismo senza poesia è superstizione, e la poesia senza misticismo è prosa», scrive Tolstoj, ma potrebbe tranquillamente essere un manifesto dell’ultima filmografia di De Bernardi, del suo non aderire ad alcuna forma prestabilita che non sia quella dell’esigenza di raccontare tutto quello che abbiamo paura di perdere e di non saper più (dove) ritrovare.
Da Napoli a Torino, da Bombay a Marsiglia, partendo ovviamente dal nido di Casalborgone. Il viaggio di Tonino, come il nostro, ha bisogno di punti fermi in cui potersi ritrovare per poi improvvisamente allontanarsi. Ogni inquadratura è un finestra, uno sguardo su un mondo che compare quasi incapsulato per poi sparire; quasi fissato come in una fotografia, ciò che vediamo sono gli elementi che colpiscono l’occhio di De Bernardi e che lui vuole trasmettere (quasi per osmosi attraverso lo schermo) a noi. Tutto questo fa parte di una pratica cinema in cui il testo è visibile davanti all’occhio dell'”attore”, lo svelamento continuo di una magia che si forma davanti alla camera e che rivive nel movimento. La parola è la chiave per suscitare un’emozione celata, un qualcosa da ritrovare nell’anfratto più nascosto dell’anima. Appare Enrico Ghezzi e poi il maestro Muti, si riconoscono Joana Preiss e Tommaso Ragno, e poi Adamo Vergine insieme a un’infinità di amici e conoscenti che, dando nuova vita a poche sillabe, dialogano con l’ultimo testo, forse quello più misterioso, di Tolstoj. Ecco la doppia esposizione di questo viaggio, seguendo paradossalmente il ritorno di Nechljudov, il senso di colpa, la fuga con Katjuša verso la Siberia, come declinazioni dell’oggi in cui lo scarto con il presente diventa evocazione ed elegia continua della percezione. Come una tomba che può diventare una sinestesia, o una scena da un matrimonio che appare chiave di lettura di tutto ciò che passa e cambia. Il viaggio, in fondo, non deve porsi limiti e non deve avere alcuna finalità che non sia la pura domanda.
«Allora egli era un uomo coraggioso, libero, dinanzi al quale si aprivano infinite possibilità, – ora si sentiva preso da ogni lato nei lacci di una vita stupida, vuota, meschina e senza scopo, da cui non vedeva alcuna via d’uscita, anzi il più delle volte neppure voleva uscirne. Ricordò come andasse orgoglioso, un tempo, della sua franchezza, come si fosse dato per regola di dir sempre la verità, e fosse davvero sincero, mentre adesso era tutto immerso nella menzogna, nella più terribile menzogna, una menzogna che tutti coloro che lo circondavano prendevano per verità». In queste parole, tratte da Resurrezione, paiono comparire tracce di tutto il cinema di De Bernardi, di questa ostinazione verso la verità e dello spirito. Una soggettiva perenne del guardare e del guardarsi, continuando a filmare tracce e impressioni del nostro passaggio, di tutta questa provvisorietà. Un film costruito al montaggio – anche qui con il fondamentale contributo di Maicol Casale – e che ci insegna ancora una volta come il cinema stesso sia un atto di profondissima fede. La stessa che, nel finale, guiderà Nechljudov per sconfiggere la tragicità di un mondo corrotto e apparentemente senza speranza. Ed ecco, infine, l’eredità continua dell’avanguardia non solo come linguaggio ma come pratica di comprensione dell’oggetto (e dei soggetti), in attesa di una rivelazione. Un’eredità di trasfigurazione ancora viva e pulsante, che lotta costantemente contro la superficiale aridità del contemporaneo e della sua immagine, guardando a un’altra via ben più scoscesa e apparentemente solitaria. L’essenza del cinema è la sua pratica, espandere il set possibile all’infinito; la legge di De Bernardi è un monito al nostro sguardo, a tutte le nostre esperienze, a ciò che vogliamo vedere e ricordare.
Erik Negro