RESTER VERTICAL (2016), di Alain Guiraudie
Un’ennesima parabola sull’indeterminazione, in cui la deriva della narrazione collima con quella dei personaggi, dei paesaggi, delle reiterazioni, della creazione come della vita. Nell’instancabile e vorticosa esperienza cinematografica che Alain Guiraudie continuamente ci mette di fronte, Staying Vertical è un tassello fondamentale e necessario, diretto controcampo (ideale?) de L’inconnu du Lac, e per certi versi ancora più ossessivo e coraggioso, nella sua disarmante umanità del/sul limite, che ne accentua gli spigoli e gli scarti di un cinema perennemente alla ricerca di se stesso. Anche il protagonista gioca sul quel crinale, uno sceneggiatore (o regista forse) in crisi senza passato e forse senza futuro, che vorrebbe trovare nella purezza, così come nel desiderio, una linfa vitale prima che autoriale. Spleen e Ideal si fondono con figure dai tratti abbozzati (un contadino, sua figlia pastorella, un vecchio dolce e pazzo, un giovane astenico e misterioso, una fata/strega del bosco) anch’esse indeterminabili, come se solo potessero vivere in quel film o attraversare quelle inquadrature. Le storie così si intrecciano e si riavvolgono in questi (dis)umani paesaggi del Lozere, che paiono anch’essi solo definiti dai margini, baciati dalla luce nella loro continua astrazione.
Non pare esserci nemmeno un pretesto a definire questa fiaba ossessiva, in cui si gioca con la vita e con la morte, come se solo l’atto potesse salvarci dall’oblio; nessuno ha idea di come agire, nessuno è mosso da nulla che non sia il desiderio, fisico e perverso, romantico e libero, ossessivo e surreale. La simbologia si fonde con la ritualità, dove l’amore (tout court) è la stessa declinazione fisica della scoperta, del delirio quasi cristologico (o adamitico, o francescano) che si umanizza nella necessità continua del mostrare (e mostrarsi). Un atto sessuale, un parto, una morte; tutti i punti di fuga di queste vite, teneramente in bilico, si sporcano nel campo che Guiraudie insegue continuamente nel tentativo estremo di definire un intimo universale, il nostro essere perversi e polimorfi in quanto terribilmente provvisori e forse soli. Qualsiasi fotogramma tra le colline scoscese e le paludi sudate della Francia rurale, è definito dall’occhio di un poeta, impregnando ogni impostazione iper-reale con angoscia e maestosità. Il vento soffia, gira e si perde, così come le note psichedeliche e lontane di un’epoca forse più libera, sicuramente più sensibile.
Il film ha già fatto discutere (e pensare oggi di fare scandalo potrebbe già essere un risultato non da poco) ma, almeno per chi scrive, non ha il minimo senso fermarsi a letture superficiali e/o indottrinate che possono risultare criticabili (l’eutanasia/coito su tutte). Ma forse proprio da quella scena dovremmo partire, meno di cinque minuti ero(t)ici e sublimi, lisergici e spontanei, di una dolcezza dissacrante e straziante, in cui il desidero che si fa atto è l’unico ponte possibile tra amore e morte, così senza parole. Quelle che il nostro (anti)eroe cercherà per tutto il film, trovandole forse nella grotta della fata/strega, che piacciono tanto al produttore quando risale il fiume paludoso e apparente, ma che lui detesta. Quelle che lo stesso Guiraudie oscura continuamente, centellinandone nella loro vacuità, mai esplicative e sempre contraddittorie, quasi a smentire l’immagine stessa. Così, nel silenzio dell’azione, il nostro protagonista ha perso tutto, anche il figlio, seguendo solo la deriva del suo desiderio, cercando solo quel sorprendersi del mondo che nulla può portare, se non l’accettazione continua di una sconfitta. Il destino, forse, quello che le fiabe non ti diranno mai, ma che ti fanno intendere strofinandoti sempre più forte le ferite dell’esistere.
Non torna nulla in questo film, solo il film stesso e su se stesso, come in un vortice di atti e di amori in cui la purezza mostra più volte la sua inquieta fisicità. E allora si torna all’inizio, a quella natura, all’agnello da sacrificare al lupo, dove tutte le tracce apparentemente tornano, solo per disperdersi nuovamente. Pare non resti più nulla, nella penombra di una retroproiezione del desiderio ultimo e ossessivo, quello che nella paura provoca l’ultimo elan vital, il più necessario. Restare verticali davanti ai lupi, per non essere sbranati, restare verticali come un’erezione e come un martirio, come un sacrificio davanti alla storia delle storie, dove tutto è indeterminato, vivo, libero e agghiacciante. Uno spazio non misurabile in cui l’esserci, compreso nella sua estrema possibilità di esistere, è la temporalità stessa dell’atto e non la sua possibilità. Proprio come il cinema di Guiraudie che ogni volta ci mette davanti alla carne viva e calda, all’ossatura del sentimento, al suo sgocciolarsi che ci erode l’anima, ma che forse è l’unica immagine possibile, nell’illusione folle e cieca che ci stiamo muovendo.
Erik Negro