Perfettamente inserito nel percorso autoriale che ormai ne contraddistingue l’agire artistico, Rendez-vous avec Pol Pot è un ulteriore capitolo dell’opera di denuncia ed emersione degli orrori del regime dittatoriale cambogiano del cineasta Rithy Panh, originario del Paese ma fuggito appunto negli anni Settanta, in Thailandia prima per poi riparare definitivamente in Francia. Il regime presieduto dal “Fratello numero 1” Pol Pot, tra il 1975 e il 1979, massacrò un quarto della popolazione del Paese, prima dell’invasione della Repubblica socialista del Vietnam che costrinse il dittatore e i suoi fedeli a rifugiarsi in una sorta di feudo canaglia al confine thailandese, in funzione antisovietica e con l’appoggio di Usa, Cina e Thailandia. La Kampuchea Democratica, questo il nome della Cambogia nell’arco di quel breve e nefasto periodo, è forse una delle pagine più nere della storia, già di per sé sanguinosa, del Novecento. Panh ha trovato una chiave di rielaborazione del trauma peculiare, e la mente va in primis al film che lo portò ad Hollywood nella cinquina dell’Oscar per il miglior film straniero, L’immagine mancante, che operava una sorta di re-enactement del rimosso inconscio collettivo grazie alla ricostruzione delle scene di massa tramite minuziosi allestimenti con pupazzi di terracotta. Escamotage che ritroviamo a tratti anche in quest’ultima opera presentata nella sezione Premiére del 77mo Festival di Cannes, che abbina ad una cornice finzionale che ne sorregge la struttura immagini documentarie e, appunto, il riempimento delle immagini “mancanti” tramite gli allestimenti con i pupazzi che riprendono anche le fattezze dei tre protagonisti. Una troupe francese riesce ad avere l’autorizzazione per un’intervista con Pol Pot, e all’arrivo in Cambogia viene subito presa in carico da una milizia, isolata e rigidamente controllata. Il terzetto è composto da una giornalista (la kieslowskiana Irène Jacob), da un fotoreporter (Ciryl Guei) e da un intellettuale simpatizzante dell’ideologia rivoluzionaria (Grégoire Colin). Visto che l’autorizzazione per incontrare Pol Pot tarda ad arrivare, i Nostri vengono “intrattenuti” con visite guidate all’interno delle comunità agricole che hanno accolto la gran parte degli abitanti della capitale Phnom Penh, e ricevono inevitabilmente risposte ammaestrate ad ogni quesito che viene posto.
Paul, il fotoreporter, alla lunga si stanca ed “evade”, arrivando a documentare con la sua macchina fotografica fosse comuni e radure dove s’inciampa letteralmente in resti umani ad ogni passo. La composizione dell’immagine relativa alle sue esplorazioni rappresenta una delle idee registiche più felici, in un senso naturalmente non letterale ed estensivo dell’aggettivazione: l’occhio dell’obiettivo fotografico squarcia il velo della (impossibile) rappresentazione e ci offre reperti documentari nudi e crudi, con un pudore fremente d’indignazione. Parimenti, nelle notti agitate che la Lise Delbo di Irène Jacob passa in baracche di legno sbarrate dall’esterno, i suoi sogni diventano a loro volta proiezioni, e sui muri del tugurio si materializzano deportazioni e violenti pestaggi. L’unico a non sembrare sconvolto da quanto accade intorno a sé è Alain, l’intellettuale e mediatore culturale, destinato a pagare fino all’estremo l’aver confuso gli ideali marxisti con questa grottesca e disumana sarabanda. L’abilità di Panh è anche, come si è già intuito, nel rendere i tre personaggi principali prototipici e portatori di posizioni umane, culturali e intellettuali diverse tra loro. L’approccio barricadero del fotoreporter non pagherà, l’infedeltà dottrinale dell’intellettuale apparentemente organico nemmeno. A sopravvivere sarà lo sdegno professionale di Lise, che non abbassa la testa quando più serve, quando bisogna porre domande a ritmo incalzante col microfono piantato sotto il muso dell’intervistato. Particolarmente significativo, anche se un po’ facile, il segmento in cui un contadino viene portato davanti a lei per testimoniare la solidarietà popolare al regime, e la lezioncina impartita viene sopravanzata dal terrore di sbagliare. L’attenzione maniacale di Panh nel fermarsi sempre un attimo prima, nel seguire la lezione lanzmanniana dell’irrappresentabilità fino alle estreme conseguenze dell’orrore, è ormai un automatismo per un cineasta che lavora e ragiona su questo, praticamente, da tutta una vita, prima da vittima e poi autoinvestendosi dell’improbo compito della memoria.
Il momento dell’incontro con Pol Pot, nel pre-finale di quelli che sono tanti, forse troppi finali, è gestito affidandosi completamente all’immaginario finzionale del cinema, anche quello più di consumo che parrebbe molto lontano: il dittatore è immerso nell’ombra al primo incontro con i giornalisti, come un Kurtz ormai irrimediabilmente votato al lato oscuro, mentre nell’apparizione successiva, al cospetto di Alain, è inquadrato di spalle mentre accarezza un gatto, come un Blofeld bondiano tragicamente reale. I tre piani, dunque (cornice finzionale, ricostruzione di scena di massa con pupazzi, inserti documentari) rispettano la mitologia cinematografica usandola per produrre nuovi/vecchi scarti di senso, inscrivendo il film nel filone del thriller politico à la Costa Gavras, Weir o Stone, giusto per citare solo qualcuno dei tanti cineasti che hanno usato la cornice del grande evento storico per immergere i personaggi in situazioni al limite. A una prima parte forse un po’ troppo statica e ripetitiva, segue una seconda dove il ritmo si fa incalzante, e l’Apocalisse coppoliana viene rievocata anche nel percorso a ostacoli e tragedie che porta fino all’INCONTRO. Deludente, come solo un mediocre uomo privo del superomismo iniettato da Conrad-Milius-Coppola può essere, e nell’ombra non per scelta, come Brando, ma per necessità, costretto a farsi ritrarre in quadri e statue sempre più grandi e imponenti tesi a mascherare l’originaria piccolezza. Alain, il comunista intellettuale che legge i precetti sui manualetti dei khmer rossi scuotendo un po’ la testa, è convinto di potersi rivolgere al Fratello numero 1 da compagno a compagno, da rivoluzionario sulla carta a rivoluzionario de facto, e pagherà caro il suo errore. Paul verrà additato, come spesso accadeva nei regimi autoritari di ogni grado, colore e latitudine, come spia della CIA, mosso da un coraggio ammirevole e scriteriato, occhio atto solo a documentare e riportare. Forse è proprio in quest’ultimo che più s’identifica Panh stesso o, più probabilmente, la sua personalità è tripartita in tutti i protagonisti: tre modi diversi di reagire, tre modi diversi in cui poteva andare, tre modalità di espressione che, tramite il giornalismo e il cinema, non riescono, perché ontologicamente non possono, a stare zitti e a voltarsi dall’altra parte.
Donato D’Elia