RELAXER (2018), di Joel Potrykus

Nel bel mezzo della bizzarro-fest che è l’ultimo sforzo cinematografico di Joel Potrykus, Relaxer, bisogna da subito tenere in considerazione che non tutti gli orpelli narrativi grotteschi che il film propone sono solo scelte eccentriche contro il sistema cinematografico tradizionale; molti momenti del film sono invece delle scelte concettuali, atte a delineare un percorso estremamente specifico. Entriamo nel dettaglio: ambientato negli ultimi mesi del 1999, Relaxer gira attorno a un singolo personaggio, l’ingenuo Abbie, una specie di neo-Buster Keaton che conduce un’esistenza un po’ da Pewdiepie e un po’ da Jackass. Sin dall’infanzia è preso di mira dal fratello Cam che lo costringe perpetuamente ad accettare sfide impossibili. Abbie non si tira mai indietro e accetta ogni richiesta, ma non riesce mai a concludere effettivamente queste sfide, spesso a sfondo videoludico, motivo per cui Cam non fa che continuare a bullizzarlo. Non aiuta il fatto che il padre dei due sia stato arrestato per pedofilia, e che Abbie ancora non sia riuscito ad accettare questo fatto, bloccandosi in un infantilismo che sembra filtrare qualsiasi informazione reale a riguardo. Appena prima di andarsene da casa propria per un periodo indeterminato, Cam lancia una nuova sfida al fratello: battere il livello 256 di Pac Man, senza mai alzarsi dal divano. Abbie accetta. La scadenza corrisponde con il ritorno di Cam. Abbie prende troppo sul serio la sfida e il film da commedia indie sui generis diventa un vero e proprio thriller di sopravvivenza à la Misery non deve morire, con la grossa differenza che qua il nemico non è l’altro ma il protagonista stesso, il suo libero arbitrio, la sua capacità di scegliere per se stesso. Di nuovo come nel film precedente, Potrykus si diverte a lasciare un inetto nella sua solitudine, e con la macchina da presa è contemplata la disgregazione di quest’individuo, i suoi peccati (lì l’avarizia, qui l’accidia) che lo tramortiscono sempre di più.

La tensione nel film è causata da tre fattori, ma i primi due (l’effetto di disturbo recato dalle situazioni in cui Abbie si caccia e la tensione causata dagli ostacoli che incontra mentre cerca di completare la sfida) sottostanno al terzo, il più immediato, mosso dalla frustrazione dell’esperienza stessa della visione nel momento in cui il protagonista, che potrebbe alzarsi da un momento all’altro, persevera nella propria dubbia decisione di continuare. Subendone di tutti i tipi, da bombe insetticide fino a uccelli che rompono le finestre. L’orrore potrebbe finire dal primo minuto di film, ma nella condizione triste dell’uomo moderno succube della propria pigrizia e della propria testardaggine, Abbie rimane seduto fino alla fine. Passano ore e mesi. In mezzo c’è anche un errore di montaggio madornale: una scena notturna in cui riceve la visita dei suoi ex-colleghi Arin e Cortez (quest’ultimo co-protagonista del precedente film di Potrykus, The Alchemist Cookbook, visto due anni fa, anch’esso a Torino; una specie di universo comune?) ricoperto di sporcizia che gli verrà versata addosso solo successivamente nell’intreccio. Alla fine, si giunge al superamento del livello, ed è proprio durante il countdown che porta dal 1999 al 2000. C’è un glitch nel livello, è il motivo che lo rende impossibile da battere. Abbie lo sapeva ma pensava non fosse vero. E poi, si avvera il Millennium Bug: tutto si azzera, tutto è nero, gli sforzi di Abbie non sono serviti a nulla e ora la sua tortura interiore consiste, finalmente in maniera individuale oltre al turbamento psicosomatico degli spettatori, nell’impossibilità di alzarsi. Abbie è il Sisifo dei nostri giorni, Pac Man è il suo masso, il divano è la sua montagna.

Ma dobbiamo immaginare Sisifo felice. Potrykus ci prova: Abbie non è contento della sua lotta contro il tempo (che diventa uno scontro contro l’uomo moderno, l’uomo che crea mondi – i videogiochi – ma li fa collassare), però continua a lottare, per giungere al superamento del problema, alla gioia, alla sconfitta dei demoni e al padre, forse. Il momento in cui il collasso del mondo creato dall’uomo, il glitch del videogioco, si incrocia con l‘esperienza personale di Abbie, c’è la rottura definitiva del reale. Anche il mondo di Relaxer dunque smette di essere un mondo reale e diventa un mondo creato dall’uomo, forse l’uomo moderno, un collasso delle barriere tramite l’avveramento dell’apocalisse digitale prima ancora che la rivoluzione vera e propria del digitale cominciasse a prendere piede nella quotidianità del genere umano. In ciò, subentra un artifizio narrativo, un McGuffin grottesco: gli occhiali 3D di Abbie. Quando li indossa, Abbie dimostra a chi c’è attorno a lui di stare male, di essere nervoso o triste; è una specie di segnale autistico, un automatismo psicosomatico infantile. Ma è possibile, e sembrano esserci sempre di più conferme di questa cosa, che in realtà attraverso essi lui riesce ad avere poteri psichici o addirittura telecinetici. Altri amici lo vengono a insultare, altri provano ad aiutarlo, ma lui rimane lì, così.

L’unica maniera per farsi forza è proprio un’aggiunta al corpo, questi occhiali, un’arma per difendersi, datagli dal padre. Dalla corruzione del passato. Però simboleggiano anch’essi una tensione verso il futuribile, una nuova visione del mondo, attraverso forme e colori che si possono duplicare miracolosamente grazie alle nuove tecniche. Andando verso il finale, che nel contempo cita Scanners e pone con una rottura della quarta parete un interrogativo allegorico allo spettatore, Relaxer smette di essere un thriller su un perdente, va oltre la parabola mitologica sulla condizione dell’uomo accidioso e diventa un piccolo grande attestato sul passaggio da un mondo a un altro, da un cinema a un altro, da una visione apocalittica a un già post-apocalittico. Non dobbiamo, per forza, con la fantascienza, commentare le rovine, adagiarsi sulla distruzione, e Potrykus cerca di ovviare a questo problema nella messinscena del genere distopico provando a teorizzare tramite il genere le origini stesse di questa distruzione sensibile. Forse nella sua (per ora, comunque, breve) filmografia non c’è ancora qualcosa che trascenda il mero film d’intrattenimento con pochi spunti autoriali, ma nonostante ciò ci risulta difficile non trovare nella sua folle coerenza stilistica una simpatia incredibile. È un piccolo genio dell’underground, che non si vergogna a fare cose che potrebbero essere considerate anacronistiche (il finale di Alchemist Cookbook, i titoli di testa di Relaxer) perché, forse, vive egli stesso in una propria bolla ucronica, pronto a creare, sputando in faccia all’industria.

È una commedia pacchiana e un horror ridicolo, in cui il protagonista vomita, piscia, sanguina, si beve il sudore e riceve docce di merda. Eppure è affascinante, unico nella sua follia, un po’ come un’altra commedia satirica di quest’anno da riscoprire, Sorry to bother you di Boots Riley, prodotti senza vergogna che renderebbero fiero John Waters. Ed entrambi sono oggetti notevoli da analizzare per capire il mondo odierno e cosa lo smuove a livello direttamente popolare, a metà tra l’intellettualismo e la necessità di portare in maniera diretta un messaggio, con un giusto equilibrio tra cinefilia raffinata e grezzaggine. La gente scappa dalla sala, ma è pur sempre un’opera d’arte.

Nicola Settis